Quando Bianciardi scoprì il duo Celentano-Jannacci
Nel libro di Gian Paolo Serino un ritratto dello scrittore che seppe capire il futuro della Milano del dopoguerra
Se il vero intellettuale è quello che precorre i tempi, che non si accontenta di analizzare la banalità del quotidiano ma riesce a gettare lo sguardo sul domani, è indubbio che di personaggi simili, Milano dal dopoguerra ad oggi ne abbia avuti ben pochi. Luciano Bianciardi fu uno di questi: young angry man quando ancora questa etichetta non circolava, un Cecco Angiolieri insofferente ai climi della sua epoca, e che alla fine visse la beffa più atroce, venire inghiottito e riciclato dal sistema: «Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano». E quasi inquietante è pensare che nel 1962, ne «La vita agra», abbia individuato il simbolo dell’accumulazione capitalista, quello che il protagonista vuole abbattere con la dinamite, nella torre Galfa di via Galvani, che verrà occupata più di mezzo secolo dopo dal collettivo Macao.
Bianciardi morì nel 1971, dopo avere mollato o rifiutato posti di lavoro per cui un aspirante intellettuale di oggi prostituirebbe volentieri se stesso e una parte rilevante dei suoi familiari. Alla sua vita agra Gian Paolo Serino ha dedicato un libro che sara in libreria da giovedì, « Luciano Bianciardi, il precario esistenziale » (edizioni Clichy) in cui illumina un dettaglio della vita dello scrittore che la dice lunga sul suo rapporto con Milano, sulla acutezza del suo sguardo su quel che si muoveva nella città all’inizio degli anni Sessanta. Fu lui, Bianciardi, a individuare per primo il potenziale di due figure destinate a svolgere un ruolo dominante nel panorama artistico e culturale degli anni successivi. Sia Adriano Celentano che Enzo Jannacci ebbero in seguito un grande successo, ma la loro carica dirompente fu vista da Bianciardi ad occhio nudo quando quei due ragazzotti, entrambi figli di prima immigrazione, si muovevano ancora nella città dinoccolati e improbabili. Bianciardi si invaghì del primo, del secondo forse ebbe un po’ di timore. Ma in entrambi ebbe l’acutezza di cogliere un futuro da maitre a penser.
Con Jannacci il rapporto fu assai stretto: dell’occhialuto strimpellatore Bianciardi scrisse le note di copertina del primo disco, «La Milano di Enzo Jannacci», anno 1964. Ne fece il protagonista di un documentario per la Rai, in cui ne indagava la poetica: «Lo Jannacci è un milanese tipico, cioè è figlio di meridionali ed è cresciuto in questa città che sta, come lei sa benissimo, al centro del triangolo scarpario Varese, Vigevano, Tradate. Ecco perché l’attenzione dello Jannacci si punta tanto spesso sulle scarpe, sui piedi». Jannacci, che era tredici anni più giovane di lui, lo illuminava con squarci di pareri sulla Milano di quegli anni: «Abbiamo perso la guerra, siamo poveri e nessuno lo dice. Tutta la mia produzione pseudopoetica parla di un Paese che fa finta di essere ricco e colto ma non pensa, non legge, non capisce».
Con Celentano il rapporto fu meno intimo, perché si intuisce che Bianciardi ne era affascinato ma al tempo stesso ne diffidava, perché ne intuiva le potenzialità di guru. L’anno stesso in cui il «molleggiato» vinse il Cantagiro, 1962, ne recensì il «sorriso celentanoide, espressione emblematica del neoqualunquismo neocapitalista»: per Bianciardi, il giovane Celentano era «saldo e avveduto» e avrebbe un giorno lanciato «una filosofia totale intervenendo nei dibattiti come un intellettuale accreditato». Una profezia straordinariamente azzeccata.
27/01/2015 – Il Giornale di Milano (www.ilgiornale.it)