L’articolo di Bruno Perini che ha indotto lo zio Adriano a rispondergli dal suo blog
Di seguito riportiamo l’articolo di Bruno Perini, nipote di Adriano Celentano, che ha scaturito la risposta del molleggiato, dalle pagine del suo blog.
“QUELLA VOLTA CHE ZIO ADRIANO FECE INCAZZARE MEZZA ITALIA”
di Bruno Perini
«DEVO AMMETTERE che quando anni fa con la canzone Tre passi avanti ho criticato e deriso il movimento beat ero “lento”, molto lento. D’altronde, non per niente, mi chiamano il re degli ignoranti». Correva l’anno 2005. Zio Adriano, o semplicemente Adriano, come l’ho sempre chiamato in famiglia, abbandonate definitivamente le simpatie per l’ex Cavaliere di Arcore, confeziona su Rai Uno il più impegnato e antiberlusconiano dei suoi show, Rockpolitik. «È una bomba» mi aveva annunciato in una telefonata. «Vedrai, ti piacerà». Sarà infatti un tripudio di ascolti e successo.
Nel corso di ogni puntata, a un certo punto, si dirige verso uno scranno che ricorda un pulpito ecclesiale e, accompagnato dalla chitarra elettrica di Michael Thompson, emette sentenze di accusa e di assoluzione nei confronti dei personaggi più noti del momento. Chi è assolto è “Rock”, chi è colpevole è “Lento”. È lì che arriva la condanna, sotto forma di autocritica, anche per se stesso. E quella non sarà l’ultima volta in cui ammetterà di aver sottovalutato i giovani beat. «Confesso che di fronte a quell’ondata di novità che arrivava dalla Gran Bretagna, come sempre ci accade di fronte alle novità. Ben presto tuttavia mi resi conto che stavo assistendo a una rivoluzione che stava cambiando la musica e la cultura del nostro tempo. I Beatles irruppero nella scena mondiale combinando melodia e rock e aprendo così una nuova era musicale. In questi casi o si accoglie la novità e ci si adegua o si rischia di venire sotterrati», rimarcherà Celentano nella biografia che ho scritto su di lui nel 2010, Memorie di zio Adriano.
Quando nel 1967 a San Francisco esplode la summer of love, in Italia lo zio Adriano, considerato da oltre un decennio il “Re del rock” anni ’50, quello di Elvis Presley, Chuck Berry, Little Richard e Bill Haley, guarda con scetticismo a ciò che accade in Gran Bretagna e oltreoceano. D’altronde, l’onda lunga del pop rock arriva con un certo ritardo dalle nostre parti e gli interpreti italiani della rivoluzione anni ’60 non sono certo all’altezza degli anglosassoni. A quell’epoca ci sono i Nomadi, l’Equipe 84, i Giganti, i Dick Dick e altri discreti gruppi minori. Il confronto con i grandi del rock inglese e statunitense è tuttavia insostenibile.
È proprio in questo clima culturale che nasce il pezzo Tre passi avanti, che ha fatto guadagnare allo zio l’epiteto di conservatore. «Caro Beat mi piaci tanto, sei forte perché hai portato oltre alla musica dei bellissimi colori che danno una nota di allegria in questo mondo pieno di nebbia.
Però se i ragazzi che non si lavano, quelli che scappano di casa, e altri che si drogano
e dimenticano Dio fanno parte del tuo mondo.
O cambi nome. O presto finirai.» Fin qui il parlato del brano. Il cantato esordisce così: «Tre passi avanti e crolla il mondo Beat, una meteora che fila e se ne va ragazza svegliati. Ehi, cosa fai, mi lasci per andare con uno che ti mette nei guai.» L’attacco a quella generazione è forte, l’identificazione con la droga è pesante. Ma si tratta pur sempre di una canzone. I media di allora non ne fanno un caso, anche perché siamo alla vigilia della vera “rivoluzione”, che in Italia più che in altri luoghi dell’Europa assumerà una colorazione politica accentuata: il fatidico Sessantotto, in cui il paese verrà scosso da un fremito che smuoverà milioni di persone che si daranno appuntamento con la storia per far sentire la loro voce e per chiedere un cambiamento davvero radicale del mondo.
Alla protesta della guerra del Vietnam si affianca la ribellione ai carri armati sovietici che invadono la Cecoslovacchia. L’Africa nera si sveglia e si ribella al sottosviluppo voluto dall’Occidente mentre in Europa, accanto alle lotte operaie e studentesche, esplode la critica alla famiglia e nasce la rivoluzione sessuale. Sono movimenti che incidono sulla politica come sulla cultura, sulla musica come sull’economia. Anche in questo caso lo zio Adriano è attonito per quanto accade: nelle tematiche sessantottine riconosce molto dei suoi temi, dal nucleare all’ecologia, dalla critica alle forme più deteriori della modernità che si ritrovano ne Il ragazzo della via Gluck, o nel Mondo in Mi7°, ma la sua religiosità lo tiene lontano e lo rende ostile a temi come l’aborto. Guarda alla rivoluzione sessuale con diffidenza, non accetta la critica alla famiglia. Ricordo le nostre prime accese discussioni a tavola, le mie sfide allo zio che si traducono nel passare con il pugno chiuso alzato sotto le finestre del Clan in corso Europa.
Con lo scorrere del tempo, le cose non cambiano, anzi. Nel 1970, in piena contestazione, Adriano rilancia in modo a dir poco sorprendente. Si getta infatti in quello scenario assai complesso e ancora indecifrabile, scatenando un mare di polemiche con il pezzo Chi non lavora non fa l’amore. La canzone, non può essere altrimenti, viene subito interpretata come un manifesto anti operaio, una provocazione a freddo contro gli scioperi di quel periodo.
Poi arriva l’imprevedibile: i neofascisti di allora, organizzati nel Movimento Sociale Italiano, si appropriano del titolo del brano e ne fanno un volantino di propaganda politica contro le serrate e il movimento studentesco. Scoppia il putiferio. In occasione dello sciopero di una piccola impresa di Monza le operaie, proprio durante un acceso corteo, replicano a distanza allo zio con un cartello gigante con su scritto: «Caro Adriano, chi non lavora non fa l’amore». Per me, che in quegli anni frequento la Statale di Milano e partecipo attivamente ai moti di contestazione studentesca che hanno proprio nella mia università il centro nevralgico, è un colpo mortale. All’improvviso è come se fossi io il responsabile di quella canzone. Tutti quelli che sanno della mia parentela con Adriano Celentano non lesinano commenti, per così dire, coloriti. «Bruno, tuo zio è davvero uno stronzo! Hai sentito bene che cosa dice in quella canzone che i fascisti hanno preso come loro bandiera?» Insomma, in quel clima incandescente essere il nipote del molleggiato non è certo motivo di vanto.
Le critiche non si attenuano. Un giorno, su un muro di Firenze, compare una scritta enorme: «Celentano reazionario». Decido allora di mettermi in contatto con lui e chiedergli in modo schietto per quale assurda ragione gli sia venuto in mente di comporre un brano simile, nel corso di un conflitto politico e sociale che stava cambiando il corso della storia. La replica, com’è prevedibile, è tra il naive, la buona fede e il comico. Addirittura mi anticipa prima di proferire parola: «Hai visto che casino è successo per la mia canzone?» «Vorrei ben vedere, Adriano. In piena contestazione ti metti a fare il pompiere degli scioperi. Che cosa ti aspettavi? Che gli operai ti portassero le rose? Quelli non sono i figli dei fiori, quelli sono incazzati sul serio. E tu che fai? Gli dici che, oltre a non dover scioperare per ottenere più salario, non faranno neanche l’amore…». Dopo uno dei suoi tipici silenzi risponde: «Ma no, Bruno, hanno capito male. Era un modo per sdrammatizzare lo scontro tra padroni e operai. Nel testo del mio pezzo chiedo che entrambi si mettano d’accordo. Non va bene?» Cerco di spiegargli che quella canzone, al contrario, è roba da crumiri; che magari all’inizio le sue intenzioni erano buone ma poi ne era uscita una canzone provocatoria. Malgrado le mie argomentazioni lui non molla, anche se non vuole passare per fascista.
Alla fine della conversazione lo metto a conoscenza anche della scritta che campeggia sul muro fiorentino. Rimane ancora una volta sorpreso. «Adriano, che fai, ti meravigli?! Era il minimo che ti potesse accadere…». «No, figurati, capisco, loro hanno interpretato quelle parole come se io fossi contro gli scioperi…». Cala un altro dei suoi silenzi. Poi riprende lasciandomi di stucco, «Bruno, scusa se te lo chiedo, ma “reazionario” che cosa significa realmente? Perché io mica l’ho capito…».
La mia rabbia si scioglie in una risata.
Gli spiego di nuovo di cosa lo accusava la gente e gli consiglio anche un dizionario. In realtà, in quella domanda c’è l’essenza che contraddistingue lo zio famoso. Il suo candore, a volte fonte di anacrosismi, misto a inconsapevolezza. Da quella volta, infatti, mi rassegno al fatto che Adriano è così. Imprevedibile. Capace, senza rendersene conto, di essere nello stesso tempo tante cose differenti: reazionario e rivoluzionario, religioso e laico, politico e distaccato. Legato alla tradizione ma anticipatore dei tempi, sia sul piano musicale sia su quello del costume. In buona sostanza, un grande estimatore (e un grande utente) del paradosso.05/08/2017 – FQ MillenniuM
Fabrizio