Gli ottant’anni di Adriano, il ragazzo della via Gluck che ha immaginato il futuro
Celentano li compirà sabato. Dal 1957 a oggi, sei decenni in vetrina Inventò il rap, si oppose alle città di cemento, fu il profeta dell’etere
di Gian Paolo Polesini
La signora Giuditta non pensava proprio di essere incinta. A quarantadue anni, figuriamoci. Nel 1937, all’età sua, si pensava che la vita ormai stesse scemando, altroché allattare e spingere carrozzelle. Il medico la rassicurò e lei partorì un bimbetto sui cinque chili che urlava come un ossesso. A volte i primi segnali, vero?
Adriano lo chiamarono, perché l’altra figlia, Adriana, morì di leucemia. Il sei gennaio saranno ottant’anni giusti giusti dai vagiti del futuro immortale.
Celentano: ognuno di noi l’ha vissuto a modo suo. Molleggiante quelli dei Sessanta, burbero al cinema i ragazzi dei Settanta/Ottanta, predicatore sul finale, nel tempo delle pause e degli anatemi.
Il milanese si è portato a spasso decenni di storia restando sempre lì, mai un inciampo, mai una frattura, azzeccando il ritmo delle epoche. Trovatene un altro e poi ne parliamo con calma. Forse perché, da ragazzo, s’inventò il mestiere dell’orologiaio? Crediamo di più alla tesi dell’X Factor, che ora è il titolo di un talent, ma comunque significa arte intima conficcata nel cordone ombelicale. Senz’altro anticipò i calendari sempre per quel geniaccio che condivideva l’esistenza col tizio nato in via Gluck, dove c’era l’erba, per capirci. Poi salì su il cemento e si moltiplicarono i palazzi a trenta piani. Lui quell’esasperazione architettonica la intuì e la cantò. Visto che siamo in argomento farebbe bene accennare a Prisencolinensinainciusol, allora bollato come gramelot antimelodico, ora è ben chiaro chi inventò il rap in Italia. E gli americani, più svegli di noi, lo sbatterono in classifica, quel motivetto lì.
Centocinquanta milioni di dischi venduti. Una montagna di vinili prima e di cd poi.
Il rock gli batteva in testa sin da bimbetto, o per lo meno da quando madre Giuditta gli regalò un 45 giri, Rock Around The Clock. Adriano lo consumò a forza di giri sul giradischi finché si decise a mostrare al mondo quel che sapeva fare. Per identificare il periodo, mettiamoci una data: maggio 1957. Al Palazzo del Ghiaccio qualcuno organizzò una specie di festival rockettaro. Il gruppo suo s’intitolava Rock Boy e il brano Ciao ti dirò. Ovvio che vinse, altrimenti sarebbe rimasto orologiaio.
A metà Novecento mostrarsi e incidere era un’impresa. La televisione aveva quattro anni e faceva entrare solamente professionisti, mica c’era la casalinga processione di adesso. Individuato il fenomeno, però, il successo arrivava. E così avvenne anche per Celentano, che nel 1961 – con 24 mila baci – folgorò il festival di Sanremo e quindi, nel ’62, fondò il Clan. Ah, giusto una chicca. Fu Giulio Andreotti a firmare la dispensa: Adriano era sotto leva e senza la carta bollata non avrebbe mai potuto abbandonare la caserma. La fama è una sovrapposizione di eventi favorevoli, siete d’accordo?
Iniziò la celentaneide, una stagione lunghissima e per nulla conclusa. Su Canale 5 non si sa quando, ma quest’anno, debutterà Adrian, la serie tv realizzata dal celebre fumettista Milo Manara.
E poi i duetti con Mina finiranno nel supercofanetto Tutte le migliori. Quei due dei pagani, lui e la tigre di Cremona, già dal ’98 unione solida con Acqua e sale, stanno magnificamente bene sotto lo stesso microfono, entrambi in fuga dalla realtà e restii al popolo bue.
Celentano ne ha messi insieme di motivetti belli che persino la gioventù nata nel terzo millennio canta ancora. Anche Battisti e De Andrè, se è per questo. Chissà se nel 2080 qualcuno canterà Vasco o ancora i vecchi? Vedremo. Anzi, qualcuno vedrà. Noi, no. Dunque, i motivetti. Alcuni, giusto perché dimenticarli ci parrebbe sconveniente: Già detto de Il ragazzo della via Gluck e di 24 mila baci. Chi non lavora non fa l’amore (vinse il Sanremo del 1970), La coppia più bella del mondo, Una carezza in un pugno, Azzurro (la musica è di Paolo Conte) e via andare fino a quelle più vicine, l’Emozione non ha voce e Il tempo se ne va. Ce ne siamo scordate almeno altre cinquanta, ma vorremmo evitare la lista della Coop. Piuttosto ci interessano l’Adriano attore e l’Adriano cineasta. Il film più innovativo? Senz’altro Yuppy du, operina futurista del 1975, la storia veneziana di Felice Della Pietà e di Adelaide (ovviamente la sua Claudia). Potrebbe essere stato girato nel 2016, che nessuno direbbe et. Questo suo proiettarsi nell’era successiva, lo ha reso un simpatico Nostradamus de noialtri, con lo stivaletto grigio, ancora adesso, su cui cala perentoria la braga a zampa d’elefante. Indimenticabili, per noi che ci siamo passati in diretta, Asso, Il bisbetico domato, Innamorato pazzo, Bingo Bongo, Lui è peggio di me per finire male, mannaggia, con Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì, pellicola mistica, peraltro assai aggiornata sulla cronaca (sullo sfondo il rapimento Orlandi) che il Paese non gradì. Fine dei giochi cinematografici.
Ben più gettonati e open space quelli televisivi, un filotto niente male: Francamente me ne infischio, 125 milioni di caz…te e Rockpolitic. Ideali seguiti catodici di quel mitologico Fantastico 8 del 1987 dove il Cele si avventò sulla caccia e cominciò così la sua fulgida carriera di predicatore.
Manca la chiusa, signore e signori. Una sessantina d’anni in vetrina non sono affatto male per un ex orologiaio di via Correnti. Che riesce ancora adesso a far parlar di sé anche quando se ne sta in pantofole davanti al camino. Il miracolo dei silenzi.
04/01/2018 – Il Messagero Veneto