Esce di rado e parla ancora meno, Celentano fa 80
Uno come lui poteva nascere giusto il giorno dell’Epifania, e solo perché venire alla luce per Natale gli sarebbe parso sin troppo didascalico. Se Gaber, che (Joan) Lui ben conosceva, cantò Io se fossi Dio con rabbia e disperazione, Adriano Celentano va da sempre oltre: si sente direttamente un’emanazione privilegiata dell’Onnipotente, non tanto per vanagloria quanto per una forma di realismo tutta sua. E tutto sommato giustificata.
Il Molleggiato compie 80 anni, e sono stati anni memorabili. Quasi sempre, anzi sempre, perché Celentano fa la cosa giusta anche quando fa una cazzata. Strana tipologia di rivoluzionario quasi suo malgrado, con un’idea di rivoluzione istintiva e apartitica. Ha cantato almeno cinquanta canzoni che tutti conoscono, con una capacità di incidere sul nostro quotidiano – di entrarci proprio dentro – che non va necessariamente di pari passo con la qualità e che in Italia ha come unici paragoni eventuali Battisti e Vasco. Tutti nomi che, ben presto, hanno cessato di essere artisti per divenire monumento. Orologi musicali del nostro vivere: scansioni temporali di un’esistenza che se ne va, perché l’esistenza non sa far altro, ma che talora se ne va con gusto.
Voce e assenza, e già questo binomio in apparenza antitetico basterebbe per definire Celentano. La Voce, atipica e calda, in grado di rendere emozionante qualsiasi cosa. L’Assenza, per pigrizia e ipocondria, per calcolo e per attitudine. Poche apparizioni, perché Dio non ama farsi vedere. Pochi concerti, perché l’uomo non ama le folle e poi ogni tanto stecca. “Esco di rado e parlo ancora meno”, come ha scritto di lui e per lui Ivano Fossati. Uomo dalle mille cadute e poi mille risalite. Predicatore, provocatore. Un giorno antiscioperista e quello dopo guevarista, con incoerente coerenza (altro ossimoro tutto celentaniano) e senza forse neanche sapere bene chi fosse mai stato ‘sto Che Guevara. Non importa: anche l’ignoranza, vera o presunta, assurge in Celentano a cifra artistica. Giorgio Bocca, come noto, lo definì “cretino di talento”. “Cretino” proprio no, nemmeno quando finge di esserlo. “Di talento” sicuramente, anche quando si è dimenticato di averlo. Casomai “re degli ignoranti”, come si è più volte autodefinito, con quell’orgoglio compiaciuto e narciso per essere non solo il “Re”, quanto e ancor più per essere un ignorante illuminato (sì, l’ennesimo ossimoro). Intimamente convinto che la conoscenza vera sia quella ruspante del popolo e non certo degli intellettuali: una categoria variegata e sbilenca che Adriano talora stima, ma di cui mai vorrebbe far parte.
Istrione nato, sin da quando appariva le prime volte in tivù e già capivi che era di un’altra categoria (lo capì subito pure Fellini, che lo volle come imberbe se stesso ne La dolce vita). Funambolo in grado di generare la notizia a prescindere, ora per la lotta contro la caccia e ora per quella contro la grammatica (l’accento oltraggiato durante il totemico Fantastico dell’87). Cattolico e ipercredente, ma pure lì a modo suo, perché per Celentano avere fede significa in fondo coltivare l’autostima. Metodico come nessuno nelle prove e poi ancor più metodico nel cambiar tutto in scena, per esempio a Sanremo 2012, quando imbastì il solito casino e Pupo, che aveva studiato bene la parte, si trovò invischiato dopo tre secondi nel mare magnum dell’improvvisazione ad minchiam e a microfoni spenti gli disse: “Adriano, che cazzo proviamo a fare tutto il giorno se poi fai sempre come ti pare?”. Lui è fatto così, e per coltivarsi tale – per invecchiare senza invecchiare – ha abbracciato l’eremitaggio. Nessuno può avvicinarsi a (Joan) Lui se non il “clan”, entità imprecisata un po’ Macondo e un po’ nowhere, che serve da un lato a proteggerlo e dall’altro a venerarlo. Da un lato cristallizza l’infanzia mitizzata della via Gluck e dall’altra riverbera il suo rango di primus inter pares.
Se una carriera si vede dalla capacità di lasciare istantanee indelebili, allora la carriera di Celentano non è neanche straordinaria. E’ qualcosa che va oltre, molto oltre, là dove perfino lo sbaglio diviene mito. Le canzoni, e che canzoni: ora emozionanti e ora liberatorie, più spesso entrambe le cose. Gli azzardi inauditi di Yuppi Du e Prisencolinensinainciusol, con quella genialità quasi oscena nella sua manifesta evidenza. La sua tivù, una boccata d’aria nel piattume marcio del buon senso comune. I balletti con Raffaellà Carrà, quelli con Heather Parisi. La poesia di Bluff, le risate di Asso. Le interviste a Gigi Proietti, ospite di Gianni Minà con a fianco Vittorio Gassman che tiene in braccio il figlio. Quel silenzio che fa rumore, quelle pause che fanno provincia. Quel carisma fuori scala. L’ironia, la malinconia. La follia, la bellezza. Tanti auguri, Adriano.
Andrea Scanzi
06/01/2018 – Il Fatto Quotidiano