Rugantino: come il milanese Adriano Celentano divenne la maschera romana per eccellenza
Tra i ruoli più atipici della carriera cinematografica di Adriano Celentano, v’è senz’altro quello di Rugantino, la più celebre maschera del teatro romano, che fin dall’annuncio della messa in produzione del film (siamo nel 1973) lo mise al centro di innumerevoli perplessità e polemiche.
Ma come Adriano arrivò ad interpretarlo? E soprattutto, per quale motivo proprio lui, che era milanese?
Partiamo dal principio.
La figura di Rugantino ha origini antiche, simbolo del carattere, della psicologia e del costume della Roma della prima metà dell’Ottocento, nel periodo della dominazione napoleonica. Era il romano vecchio stampo, autentico; vigliacchetto, seduttorello, fanfarone, belloccio e chiacchierone, in pratica «er più » ante-litteram. Partorito dalla fantasia della Roma Pinelliana, Rugantino ha rappresentato per i romani qualcosa della loro anima, il cuore della Roma popolaresca, vivace ed umana, genuina e «caciarona».
All’inizio degli anni 60, gli sceneggiatori Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e Luigi Magni ebbero l’idea di portare il personaggio al cinema e scrissero un copione, non riuscendo però a trovare un produttore intenzionato a produrre il film, nonostante l’interessamento al progetto di Roberto Rossellini.
Nel 1962 entrarono pertanto in scena Garinei e Giovannini che, letto il copione, decisero di entrare in collaborazione con i tre sceneggiatori per farne una commedia musicale a teatro. Venne annunciata in Primavera ed esordì il 15 Dicembre al Sistina di Roma, con Nino Manfredi nei panni di Rugantino, Lea Massari nei panni di Rosetta (successivamente sostituita da Ornella Vanoni), Aldo Fabrizi (Mastro Titta) e Bice Valori (Eusebia), ottenendo fin da subito un grandissimo successo di pubblico.
Più di 130 repliche a Roma, poi in tour per i principali teatri italiani e, nel 1964, anche oltre i confini internazionali. A Febbraio la compagnia sbarcò a New York, ottenendo all’inizio un buon, ma non eccezionale, successo, che grazie al passaparola crebbe a dismisura con la componente italo-americana, generalmente non frequentante Broadway, che prese letteralmente d’assalto i botteghini. Il tutto esaurito ogni sera spinse i manager americani a proporre il prolungamento delle repliche, ma era troppo tardi: la compagnia aveva già firmato un contratto per portare lo spettacolo a Buenos Aires. E la musica non cambiò.
Una commedia che ancora oggi continua ad essere periodicamente riproposta, con il volto di Rugantino affidato, negli anni, ad attori come Enrico Montesano, Valerio Mastandrea ed Enrico Brignano.
Ma veniamo al film.
Alla fine del 1972 Pasquale Festa Campanile, che nel frattempo era diventato regista, decise di riprendere la sceneggiatura che aveva scritto oltre dieci anni prima con Franciosa e Magni con l’obiettivo di portare finalmente la figura di Rugantino al cinema. Il protagonista designato doveva essere Enzo Cerusico (co-protagonista di Adriano in Le cinque giornate di Dario Argento, girato nei mesi immediatamente successivi a Rugantino ed approdato nelle sale appena due mesi più tardi), che solamente due anni prima aveva portato a teatro lo spettacolo I Rugantini, nel quale interpretava i maggiori rugantini della storia, ma il suo nome non convinse il produttore Goffredo Lombardo, boss della Titanus, poichè non era di richiamo, non era in grado di spingere la gente nelle sale. La parte venne dunque proposta a Lando Buzzanca, attore feticcio del regista allora in grande ascesa, che rifiutò.
Fu allora che Campanile pensò ad Adriano Celentano, che già aveva recitato in dialetto romanesco nell’Er Più di Sergio Corbucci (soffiando in extremis la parte a Franco Nero) e con il quale nello stesso periodo stava lavorando a L’emigrante. Dichiarò che “Celentano è un figlio del popolo ed ha un’espressione molto comunicativa. Non è romano, è vero, ma Rugantino, come tutte le maschere, a cominciare da Pulcinella, parla un linguaggio universale”. Il regista lucano apprezzava particolarmente Celentano, e già precedentemente tentò di coinvolgerlo in alcuni suoi progetti, dapprima in La ragazza e il generale (ma contro di lui s’impose il veto dell’attrice femminile protagonista, Virna Lisi) del 1967, poi in Quando le donne avevano la coda (in questo caso fu Adriano a rifiutare, il soggetto non gli piacque) del 1969. Dopo il binomio L’emigrante/Rugantino, usciti entrambi nel 1973, lavorò con lui in altre due occasioni: Qua la mano nel 1980 e Bingo Bongo nel 1982.
A differenza di Cerusico, lui metteva d’accordo qualsiasi produttore: s’era imposto quattro anni prima nel panorama cinematografico italiano con il Serafino di Germi, ottenendo al suo esordio come attore impegnato un clamoroso successo al di sopra d’ogni più rosea aspettativa. Tre miliardi d’incasso, oltre dieci milioni e mezzo di spettatori portati nelle sale e primo posto al botteghino nella stagione 1968/1969, superando titoli come Il medico della mutua con Sordi, C’era una volta il West di Sergio Leone, 2001: Odissea nello spazio di Kubrick e Il laureato di Nichols. Successivamente, fece Er più e Bianco, rosso e… che, pur non ripetendo l’exploit del film di Germi, andarono entrambi molto bene. Era diventato uno degli attori più redditizi e richiesti del cinema italiano, ma se il milanese Celentano nei panni del romanaccio Rugantino accontentò Lombardo, che già pregustava l’alto incasso assicurato, fece storcere il naso a quasi tutti gli altri.
Il suo annuncio come attore protagonista, all’inizio del 1973, venne accolto con una certa perplessità e ritrosia dall’opinione pubblica, e non mancò di creare anche alcuni disagi all’interno della produzione.
Luigi Magni, il cui apporto alla sceneggiatura fu fondamentale grazie alle sue profonde conoscenze di storia romana (anch’egli diventato regista, lo dimostra la sua filmografia composta quasi interamente da film ambientati nella Roma papalina), pretese ed ottenne il ritiro del suo nome dai titoli di testa, nonostante il parere contrario di Pasquale Festa Campanile. Mentre Aldo Fabrizi, che sarebbe dovuto rientrare nei panni di Mastro Titta dopo la parentesi teatrale, si tirò indietro letteralmente inorridito lasciando il ruolo a Paolo Stoppa. Non che ce l’avesse con Celentano, ma trovava inconcepibile affidare la parte di Rugantino ad un personaggio, a detta sua, “milanese quanto la nebbia sulla Madonna”.
Anche Mario Carotenuto, dello stesso avviso di Fabrizi, rifiutò di partecipare al film, arrivando a dichiarare che “Celentano è un romano artefatto, fasullo. Per un romano vero, vederlo e sentirlo è una sofferenza”.
L’aspra atmosfera che aleggiava, soprattutto nell’ambiente romano, attorno alla pellicola non preoccupò particolarmente Adriano, che per l’occasione prese lezioni di dizione in romanesco:
Secondo me è meglio una faccia giusta che la stretta parlata romanesca. […] Rugantino è prima di tutto un personaggio universale. Potrebbe essere americano, inglese, olandese, forse anche scandinavo. Se vogliamo farne una questione geografica, diciamo pure che è italiano: quindi io ho le carte in regola.
Pure il set, una volta iniziate le riprese, non accusò il colpo, come testimoniato da Pippo Franco (nel film, l’amico di Rugantino):
In un cast tutto di romanacci doc, dove c’erano Paolo Stoppa, Riccardo Garrone, Toni Ucci, la stessa moglie di Celentano, Claudia Mori, all’inizio poteva sembrare strano che la parte del protagonista la dovesse fare proprio Adriano. Ma lo sconcerto, se così possiamo definirlo, è svanito al primo ciak: Adriano era troppo forte, tanto da camuffare il suo romanesco un po’ zoppicante con un’espressività da grande attore.
Insomma, le riprese andarono spedite e alla fine il film fu lanciato nelle sale di tutta Italia a fine Ottobre del 1973. L’incasso fu tutto sommato buono, oltre un miliardo e mezzo di Lire e ventiseiesimo maggior risultato della stagione, ma il riscontro del pubblico fu abbastanza tiepido se messo in confronto con i risultati precedenti e successivi di Celentano, abituato a soggiornare quasi ogni anno nella top ten dei film più visti.
Come prevedibile la stampa non fu benevola, e tutti presero di mira il famigerato romanesco di Adriano. Il commento più ironico lo scrisse L’Unità: “lo strazio che egli fa del dialetto romanesco è tale da rendere la lama del carnefice una pena dolce e comunque tardiva”.
Effettivamente, nonostante fosse, in fin dei conti, anche credibile come Rugantino nella faccia e negli atteggiamenti, la sua recitazione in romanesco è decisamente tentennante, cosa resa ancora più evidente da un cast quasi esclusivamente composto da attori romani.
L’interpretazione di Celentano è comunque entrata nel culto, dando successivamente luogo ad una serie di simpatici (e bonari) sketch ironici sul romano da lui parlato, tra i quali spicca senza dubbio l’imitazione di Max Tortora, basata su una delle ultime scene del film, che ne ha fatto un vero e proprio cavallo di battaglia proposto anche durante la quarta puntata di Aspettando Adrian.
Lorenzo