Do not disturb
Qui non si tratta di decidere se Celentano ha ragione o ha torto. Ma se ha il diritto di dire ciò che pensa in un programma per cui è stato regolarmente scritturato dalla Rai e poi pompato da tg e spot all’insegna del “chissà cosa dirà a Sanremo quel matto di Adriano”, per lucrare clamore, ascolti e introiti pubblicitari. Forse Celentano non avrebbe diritto di parlare in Rai se nessuno lo stesse ad ascoltare. Ma il boom di ascolti nella sua serata, seguito dal crollo in quella senza di lui, dimostra che milioni di italiani vogliono ascoltare le sue “banalità qualunquiste” (come le han definite i commentatori più carini): cioè le sacrosante critiche alla Consulta, che ha cestinato il milione e 200 mila firme che lui stesso aveva contribuito a raccogliere per cambiare la legge elettorale; le sue critiche (sia pure nel mucchio: Famiglia Cristiana non le meritava, l’Avvenire sì) a un mondo cattolico più impegnato in beghe di potere che nell’annuncio della Resurrezione; le sue critiche alla Rai della sora Lei, che ormai è una protesi del Vaticano oltreché dei defunti partiti, e tiene fuori dalla porta chi fa stecca nel coro del pensiero unico, chi non rispetta il recinto grammaticale e sintattico delle cose che non si possono dire. Critiche talmente banali e qualunquiste che non le fa nessuno. Anche a noi non è piaciuto l’invito a chiudere due giornali cattolici. Ma Celentano, per fortuna, non ha alcun potere di chiudere giornali. Quel potere ce l’hanno i partiti, aprendo e sbarrando i rubinetti dei finanziamenti pubblici all’editoria. E quel potere l’aveva B. che, appena chiedeva la chiusura di un programma Rai, lo otteneva e, appena invocava la cacciata del direttore di un giornale, veniva accontentato nell’indifferenza di quanti oggi strepitano contro Celentano. Ora, dalla censura smaccata e pagliaccesca dell’Era B., all’insegna del “non disturbare il manovratore”, siamo passati a quella felpata e tecnica delle grandi intese, all’insegna del “non disturbare i manovratori”, chesono diventati parecchi. Monti, a Strasburgo, se la prende con un bravo giornalista del Corriere, Ivo Caizzi, reo di aver sollevato dubbi sulla sua irresistibile carriera europea. Grandi giornali attaccano il Fatto perché osa pubblicare documenti autentici sulla corruzione e i complotti in Vaticano ed esultano quando pensano (poveretti) che la Gendarmeria abbia “identificato le talpe”. Il Csm è costretto ad assolvere a livello disciplinare il pm Ingroia, ma trova comunque il modo di bacchettarlo perché s’è detto “partigiano della Costituzione” al congresso del Pdci. Il testo raccapricciante scritto a quattro mani dai “laici” Zanon (berlusconiano) e Calvi (dalemiano) e votato dal plenum definisce “particolarmente vistosa e inopportuna” l’esternazione di Ingroia: sia perché è avvenuta a un congresso di partito (ma nessuna regola deontologica lo vieta: anche Falcone e Borsellino parlavano di mafia in manifestazioni di partito), sia perché – udite udite – “fortemente polemica” verso programmi e leggi (nel caso specifico sono programmi e leggi incostituzionali) di forze politiche “facilmente riconoscibili”. Dal che si deduce che un magistrato può parlare, ma solo per plaudire a leggi e programmi partitici incostituzionali, e solo senza renderli riconoscibili: cioè parlando in politichese per non far capire che cosa sta dicendo. La libertà di espressione diventa così libertà di applauso: come nelle dittature. Nelle democrazie, invece, si può parlare liberamente sia per consentire sia per dissentire dal potere. Ma, anziché insorgere contro questa vergogna bipartisan, il presidente Napolitano ha subito esortato i partiti a riformare l’ordinamento giudiziario per inserire fra gli illeciti disciplinari anche le esternazioni che gli garbano: quelle dissonanti dal pensiero unico. Una “riforma condivisa” da fare a tutti i costi, “arginando” chi si permette di non condividerla. Così la prossima volta Ingroia, oltreché bacchettato, verrà anche punito. Colpirne uno per educarne cento.
Marco Travaglio
17/02/2012 – Il Fatto Quotidiano