ACfans

60 anni con Adriano Celentano – Il Rock compie 40 anni, intervista ad Adriano

Adriano con Gino Santercole e Gianni Dall'Aglio (1959)

Per il quinto appuntamento della rubrica 60 anni con Adriano Celentano, abbiamo scelto un articolo di Paolo Guzzanti, datato 15 giugno 1992 e pubblicato sul quotidiano La Stampa, che intervista Adriano in occasione dei 40 anni del Rock!

Il Rock compie quarant’anni

E’ nato nel 1952, Celentano rievoca la stagione degli inizi.
Cominciamo col dire che il rock è una cosa, e quello che vivemmo noi, gli adolescenti della guerra fredda, era il rock’n’roll.
E che fu l’avviso della rivoluzione. Tornavano gli americani che erano partiti con le loro navi da sbarco lasciandoci il boogie-woogie (stesso tempo, stesso ritmo, ma più grazia: da balera militare) e tornavano con i nuovi attrezzi della modernità: i blue-jeans e questa musica che era annunciazione del nuovo mondo.
Arrivano rumori, boati, foto di matti impazziti che si affacciavano su i nostri rotocalchi dal barbiere (capelli corti, quindicinali, sfumatura alta tipo “Ritorno al futuro”) in cui si vedevano le ragazze che volavano sotto le gambe dei ragazzi, piroettavano, svanivano e riapparivano scomposte e accaldata. Tirava aria di rivoluzione sessuale: vaga, già le nonne e le mamme erano inquiete, c’era tensione per quel tanto di finto esistenzialismo che filtrava dalla Francia, le adolescenti erano addestrate al filo di perle, la gonna scozzese, coda di cavallo e sguardo altero. Se le stringevi ballando, ti opponevano il gomito. Deodorante poco, per tutti. Balere fumose ma caste. Nelle metropoli qualche schiaffone, risse. I Blouson Noirs erano di quel momento: era il 1956 pochi mesi prima dell’Ungheria. E Adriano Celentano faceva l’orologiaio. Un po’ matto, un po’ svitato, zampe lunghe, domenica e giovedì in balera; quattromila lire la settimana per riparare orologi. Non era nessuno: un artigiano, un ragazzino, che correva appresso alle ragazzine, faticando. Di lì a poco, roba di un anno, Celentano sarebbe diventata la star italiana del rock ‘n’ roll, avrebbe imitato, riprodotto, urlato, si sarebbe imposto. Ma per imporsi, fu obbligato a inventarsi un rock casalingo, in italiano, una cosa che potesse entrare nelle case in cui trionfavano Nilla Pizzi e Claudio Villa. Oggi Celentano sta a Galbiate, vicino a Lecco. Allora era a Milano.
E come andò?
Andò che ancora non era arrivato niente in Italia. Se ne parlava, doveva ancora uscire il film “Senza tregua il rock ‘n’ roll”, si sentiva dire di tutte ‘ste pazzie che facevano questi americani… Io dicevo, mah, mi sembra che esagerano. Facevo l’orologiaio e avevo la lente incastrata nell’occhio. Ero lì con un piccolo meccanismo smontato nel laboratorio di via Cesare Correnti. Facevo l’orologiaio e ero matto: un segno del destino. Il disco del primo rock era intitolato proprio l’orologiaio matto…
Quello che cominciava martellando: one, two, three…
Eh! Avevo un amico che lavorava in una ditta americana. Viene e mi dice: ohè, Adriano, vuoi sentire che roba? Non ce l’ha nessuno ancora, soltanto io ho un disco. Dico: metti. Era un 78 giri, ancora non esisteva neanche il 45. Mette su e io penso: questi sono pazzi, come si fa a fare tutti quei casini per una musica… La musica parte, io alzo la testa e dico: è roba forte. Divento pazzo, lo giro tutto il giorno, non mi stacco mai dal disco. Mia madre, anche lei uguale. Non so l’inglese, ma non importa: faccio la trascrizione dei suoni. Imparo a rifarlo uguale uguale. Così uguale che alla fine mi sovrappongo alla voce di Bill Haley e si sente soltanto la mia e l’orchestra.
Risultato?
Risultato, niente. Stessa vita, solo che io comincio un po’ a menarla con gli amici: io so il rock, lo canto soltanto io… Eravamo gli amici della via Gluck e giovedì e domenica andavamo a ballare a una traversa di viale Zara, alla Filocantanti. Dài oggi e dài domani, quelli mi dicono: senti, vai lì e cantalo, ‘sto rock. E mi sono buttato.
Le ragazze?
Impazzite. Prima otto su dieci ti dicevano di no quando le invitavi a ballare. Salgo e non so niente di musica. Quello dice: in che tonalità? Dico: scusi? Lui dice: ah, va bene, parti. E io: che devo fare? Dice: parti, parti, canta, dài che ti veniamo dietro. E io mi scateno…
Anche col corpo?
Sì, tutto. Mosse, piegato col microfono, tutto. Subito il bis, e poi ancora e ancora. Io mi vergognavo, mica ero come adesso. Però pensavo: hai visto mai che fosse la tua strada? Presi l’abitudine, le notti si facevano sempre più lunghe, la mattina al lavoro sembravo una larva. Pian piano mi si allargava la voce: prima arrivavo soltanto al sol, poi al si bemolle come Bill…
Il successo immediato.
Calma. Successo fra amici. Niente di solido. Al massimo mi offrivano l’ingresso gratis perché gli muovevo il locale. Poi una sera…
Poi una sera…
Una sera arriva uno con uno sfregio sul viso. Faccia da duro. Avevo finito di cantare i tre pezzi, si fa silenzio in sala. Questo qui che vuole? Arriva fino a me, mi guarda così, e fa: tu. E io dico: io cosa. Lui: tu lunedì vieni al Santa Tecla. Tu lo sai cos’era il Santa Tecla a Milano a quell’epoca?
Esistenzialisti, maglioni neri…
Esatto. Al Santa Tecla, pareti nere, roba strana, candele, teschi, water closet legati al soffitto, roba da intellettuali. Suonava un complesso e c’erano i ballerini di boogie. Gli intellettuali, certe facce tutti seri, cupi. Basta. Quello con lo sfregio dice: tu lunedì vieni da noi. Non era un invito, era un ordine, però anche un complimento. Vado, canto, pazzesco: un successo. Mi piace: divento fisso e dico al padrone: ohè, tu ai ballerini gli dai panino, birra e mille lire. Dammi lo stesso anche a me. Lui dice: niente. Panino e birra sì, lire niente. E non ci fu niente da fare. Io ero sempre il solitario del rock. Ma cantavo soltanto in inglese. E l’inglese non andava bene per il pubblico italiano, ci voleva il rock in italiano, per vendere dischi. E le case discografiche mi rifiutavano…
Però Tony Dallara…
Dallara ebbe subito successo perché lui faceva i Platters, la loro musica, ma in italiano. Dischi a migliaia subito. Io seguitavo a fare tale e quale i cantanti americani.
Finalmente però il rock sfonda?
Sfonda? Sfonda le poltrone, sfonda i cancelli, sfonda i cordoni della polizia e si porta via le processioni…
Le processioni?
Sì. C’era il ballerino, Dossena, quello che aveva stravinto a Lascia o raddoppia? con Mike Bongiorno. Ora Dossena aveva organizzato dei concerti rock, ma soltanto con musica, solo strumenti: non cantava nessuno. Io mi presentai con nove persone, fra cui quattro chitarre due sax…
Dove?
Al Palazzo del Ghiaccio di Milano.
Era il?
Era il 18 maggio 1957. In mezzo c’era il ring. Sul ring c’eravamo noi. Intorno, cinquemila persone…
Ma la processione?
Ci arrivo. A quell’epoca era arcivescovo di Milano il cardinal Montini, che poi diventò Papa. Era lui che guidava una processione: cinquemila persone. A un certo punto quelli si passano la voce, mollano il cardinale e vengono al Rock…
E il cardinale? Anche lui?
Non so. Non entrarono. Non c’era posto e fuori ci fu un casino tremendo. La polizia fu travolta, fu un avvenimento straordinario, mostruoso, fu una rivoluzione…
Risultato?
Vietato. Chiudere, fine, tutti a casa. Una tragedia. La polizia dice: basta rock, non c’è più ordine pubblico…
Allora si poteva.
Allora si poteva e noi eravamo disperati. Ogni spettacolo, bloccato. Orca. Allora Dossena, pensa che ti ripensa, inventa una formula astuta: processo al rock. Proviamo questo spettacolo con la scusa di processare il rock ‘n’ roll. Chiediamo il “Nuovo” di Milano, al chiuso. Una paura tremenda, la gente fuori che non riesce ad entrare, ci giochiamo tutto…
Venne giù il teatro?
Quasi. Dossena si presentò al pubblico: implorò, supplicò. La gente era per terra, ovunque. Alla fine andò bene: ci furono un po’ di poltrone sfasciate, perché quelli rimasti fuori riuscirono a entrare.
Lei ormai era un divo.
Io avevo fatto la mia strada, avevo seguito tutti i complessi, imitati, smontati, capiti, cantati, suonati, ero pronto a varare il mio rock italiano e feci “Il ribelle”. Fu una cannonata: seicentomila copie subito.
Ma poi ci fu il tuo bacio è come un rock, i tuoi baci non son semplici baci, uno solo ne vale almeno tre.
Forte. Quello fu il Festival di Ancona. Musica: mia e di mio fratello Alessandro, parole di Vivarelli. Una bomba. Ma vede, finché non mi inventai questi rock italiani, non ci fu niente da fare. Le case discografiche non credevano alla potenza del rock in sé, non credevano al fatto che la gente avrebbe consumato volentieri il rock così com’era…
E lei inventò il rock della balera, il rock milanese…
Era quello dei ragazzi della via Gluck. Era una liberazione, anche sul piano delle ragazze, era una cosa che ti faceva superare i traumi, non eri più imbranato…
Ma non fu una rivoluzione generazionale? Non fu la ribellione di una generazione contro l’altra?
Ma va, ma quale ribellione. Io ero proprio dell’idea contraria. Il rock era un grande gioco che metteva insieme vecchi e giovani, era una sfida, un chiasso, uno stare insieme, la gente d’età si divertiva come matti, le signore e le ragazzine, i vecchietti e i soldati… Oggi, guardi, ci si diverte molto meno, perché oggi non è che si sta tutti insieme come una volta…
E le ragazze? Le famose ragazze della rivoluzione del rock?
Chiaro che anche loro avevano le stesse voglie dei maschi, ma erano sempre state costrette ad aspettare, ad essere invitate, corteggiate, sedotte. Arriva il rock, ed è la libertà: cominciano loro a venirti dietro, a farti le proposte, a invitarti, senti che è cambiata un’epoca… Perdevano il velo…
Diciamo lo chador…
Perdevano tutto, che casino: intorno a quel ring che stava venendo giù, quelle urla, quella folla vedevamo che un mondo era morto e un altro era nato ed era il mondo del grande rock.

Paolo Guzzanti

Lo staff di ACfans.it

Exit mobile version