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Adrian, la serie animata di Celentano: ragioniamoci su

Adrian - Frame titoli di testa

“Sogno o son meme?” è la prima reazione naturale alla visione di Adrian. Una serie animata che ha fatto discutere, da prima del debutto questo 21 gennaio su Canale 5 fino alla (momentanea?) sospensione per motivi di salute dell’ideatore. Ed essendo questi nientemeno che Adriano Celentano, uno che della provocazione all’italiana, mai troppo elaborata e sempre apparentemente abbozzata alla bell’e meglio col suo indimenticabile sorriso cavallino, non stupisce la pioggia di critiche. Lo share nel corso delle quattro puntate trasmesse, su un totale previsto di nove, è stato inversamente proporzionale alle sconfessioni.

Fra gli Oscar alle porte, le polemiche su Sanremo e una serie di avvenimenti preoccupanti nello scenario politico europeo, sembra quasi un vezzoso e superfluo esercizio di stile dire la nostra su Adrian, la creatura del Clan Celentano co-prodotta da Beijing New Century Wit Technologies e Green Dreams Investment e distribuita da Mediaset. Nonostante ciò, l’intento di questo articolo è cercare di fare luce sul dibattito che si è generato e provare a descrivere il progetto di Celentano per quel che in realtà è. Perché, per quanto trash e fuori luogo possa risultare, Adrian è riuscito alla faccia dei detrattori in almeno uno dei suoi intenti: creare scandalo, e dare allo scandalo il volto del Molleggiato.

Quando un fenomeno mediatico fa parlare di sé, vuol dire che parlarne vale sempre la pena. Arriveremo persino a sostenere, in coda alla recensione, come Adrian non solo non sia il fallimento che più o meno tutti hanno decretato (e se lo è, è un vero successo di fallimento), ma addirittura un prodotto transmediale innovativo che potremmo trovare, fra qualche decennio, almeno citato nei manuali di mediologia e semiotica dei media.


La trama (finora)

Alla prima visione, come già anticipato, si rimane sconvolti: il dubbio se la storia sia stata scritta da un pazzo o da un genio, se sia una cosa seria o un’enorme presa per i fondelli (trollata, nel gergo web) rimane costante. Fin dalla puntata d’esordio, infatti, si ha l’impressione di assistere a elementi di già visto, ma accatastati in un folle e sconclusionato pastiche degno più di uno YouTube-pooper che di un cineanimatore. Siamo nel 2068 (ma va’?): in una grigia e distopica Milano (ma va’?), un Celentano ringiovanito di cinquant’anni e vestito come Corto Maltese fa l’orologiaio in Via Gluck (ma va’?). Al suo fianco, una Claudia Mori altrettanto ringiovanita rende infuocate di erotica passione le sue notti (ma anche le mattine, i pomeriggi, le pause caffè…). Il regime, che ovviamente è un regime di cattivoni anti-ecologisti e polizieschi, organizza l’annuale concerto plenario di Capodanno. Il cantante di regime, tale Johnny Silver, ha la voce di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro e ne canta le canzoni.

Come concessione al pubblico di schiavi inconsapevoli, viene estratto a sorte uno spettatore per salire sul palco ed esibirsi assieme al divo: capita proprio ad Adrian (ma va’?), che intona I want to know con la stessa enfasi di un Roger Waters alle prese con Another brick in the wall. La canzone fa da detonatore per la rivolta: tutti impazziscono per l’orologiaio ribelle, si creano circoli più o meno clandestini di anti-sistema, la polizia si mette sulle tracce dell’istigatore. Nessuno però si ricorda che faccia abbia l’Orologiaio (buchi di trama grossi come arcipelaghi) e così Adrian fa il bello e il cattivo tempo girovagando per Milano manco fosse il palco dell’Ariston.

Mentre una multinazionale di orologiai svizzeri, che parlano come gli svizzeri francesi delle barzellette, mette una taglia sulla sua testa, e oscure manovre agiscono fra le fila della Mafia International napoletana capitanata dal diabolico mister ‘Ndranghenstein (si chiama davvero così), Adrian si diverte a creare confusione con le sue molteplici identità: prima la Volpe, vale a dire Adrian con la maschera di Zorro che non viene riconosciuto da nessuno (effetto Clark Kent “spicciame casa”, come dicono a Roma) e malmena i malviventi a colpi di tango, e poi la Befana, ovvero l’alter ego dell’Orologiaio ribelle che si concede alle interviste televisive come una qualsiasi rock-star fintamente ribelle.

Collateralmente, una serie di personaggi e situazioni scollegate fra loro: Claudia Mori che compie atti di protesta pubblica e viene inseguita da scagnozzi in moto (lei guida la bici, veloce manco Marco Pantani), una rete di Navigli sotterranei dove i reietti della società sperano in un mondo migliore, due agenti del regime maldestri si destreggiano in dialoghi talmente surreali che i Monty Python a confronto sembrano persone inquadrate. Tutto farcito da zoom e montaggi casuali, canzoni storiche di Celentano inserite dove meglio capita, sketch di disegno non finiti sovrapposti a scene animate, pillole di ecologia spicciola à la Molleggiato e, soprattutto, il pre-show.

Questi, rigorosamente live e rigorosamente col dubbio se Celentano si presenti o meno, ha gli stessi format e scenografie di programmi che hanno seriamente fatto la storia della televisione italiana, quali Rockpolitik e 125 milioni di caz..te ma a differenza dei suoi predecessori non fa ridere né riflettere: fra ballerini coi tatuaggi di Putin, Natalino Balasso e Giovanni Storti che interpretano i vecchi scoppiati, Nino Frassica alle prese con le stesse battute di inizio carriera, monologhi pseudo-seri alternati alle imitazioni di Max Tortora, tutto sembra una parodia dei precedenti lavori di Celentano. Per meglio dire, Adrian sembra una serie-meme realizzata dal meme di Celentano che interpreta il meme di se stesso. A comprovare questa lettura in chiave meta/memetica, nella quarta puntata un servizio giornalistico degli anni ’80 introdotto da Enrico Mentana (il giornalista più “memato” di sempre) mostra il vero Celentano dell’epoca, creando una connessione fra Befana, Volpe, Adrian e Adriano storico che farebbe scoppiare la testa a un esperto di meta-narrazione. Gli sviluppi della trama, da qui in poi, saranno davvero imprevedibili.


Le critiche diffuse

Sul web, letteralmente impazzito per Adrian, si è letto che la serie potrebbe rovinare la carriera di chiunque vi abbia lavorato, ma fare la felicità delle pagine di meme e shit-posting, appunto. Se metti assieme Nicola Piovani alle musiche, i disegni preparatori di Milo Manara, Vincenzo Cerami e gli allievi della scuola Holden di Baricco alla sceneggiatura, può uscirne un capolavoro o un fallimento colossale. Per i più (e Maurizio Costanzo è fra questi) è stato infatti un fallimento.

Le prime critiche sono di carattere tecnico: la serie è animata e montata in modo imbarazzante, ci sono troppi buchi di trama e di dialogo, il protagonista è una proiezione narcisista in chiave anime di Celentano stesso, la distopia e l’utopia rappresentate sono così banali che avrebbe potuto farle un bambino dopo aver letto su Wikipedia la trama di 1984. Milo Manara stesso ha disconosciuto l’opera, per la quale afferma di essere stato coinvolto solo inizialmente come character designer e poi mai più contattato (i suoi bellissimi schizzi palesemente appicciati qua e là nel montaggio lo provano).

In un secondo ordine, le critiche di carattere produttivo: “Ma come, la lavorazione della serie è iniziata nel 2009 e il risultato è un’accozzaglia di nove puntate che sembrano fatte all’ultimo, giusto prima della messa in onda? Ma quanti soldi ha speso Mediaset, e quanti ne perde? E poi, proprio Mediaset, che censurava i primi cartoni giapponesi sbarcati in Italia, adesso manda in prima serata scene di sesso e nudi espliciti?“. Al terzo posto troviamo infatti chi accusa Adrian di sessismo, di rappresentare tutte donne concubine del maschio italico e ragazzine che se incappano in malviventi è perché si vestono discinte e vanno in giro a bere di notte, quindi è colpa loro.

Infine incontriamo chi se la prende con Celentano direttamente: siamo in Italia, purtroppo, e non solo non sappiamo distinguere fra l’opera e l’autore, ma ci divertiamo a gettare fango sugli artisti, bravi o meno che siano, che abbiamo per poi fare gli esterofili e uscircene con frasi scontate del tipo “Il cinema italiano è morto, la musica italiana è morta…“. A chi taccia Celentano di essere ormai un vecchio scoppiato che dovrebbe andare in pensione, bisognerebbe forse ricordare che Celentano ha fatto parte di quella generazione (assieme al primo Gaber, a Jannacci e al premio Nobel Fo) che ha proiettato la cultura popolare italiana a livelli mai più raggiunti prima; ha creato alcuni dei personaggi più divertenti della seconda ondata di commedia all’italiana; a ottant’anni è oggettivamente un cantante e performer più potente e carismatico di molti dei nuovi fenomeni usciti dai talent nostrani. Un conto è criticare un’opera nella sua attualità, un altro è fare del vero e proprio bullismo verso un pezzo della nostra storia. Ci lamentiamo, come sempre sappiamo fare, se all’estero piovono critiche su di noi, se ci dicono che siamo rissosi e provinciali, per poi dimostrare di essere, in qualsiasi ambito della nostra vita sociale e culturale, sostanzialmente dei rissosi provinciali. Celentano, e qui risiede uno dei principali pregi della serie, gettando la sua creazione in pasto agli haters ce l’ha dimostrato.


Una possibile risposta alle critiche

A parte l’ultimo punto, legato alla sfera delle opinioni personali, tentiamo di ridimensionare le argomentazioni precedenti:

  1. Critiche di carattere tecnico: è oggettivamente vero che la realizzazione della serie è di infima qualità. È vero però anche che non possiamo valutare un cartone di Celentano con gli stessi parametri di un film di Miyazaki. L’opera ha i caratteri dell’accidente, dell’artigianale, del confusionario. Sono decenni che Celentano lavora in questo modo, e quando una pecca artistica diventa sistema, si chiama stile di lavoro. Yuppi Du (1974) non è un film fatto bene, è narcisista, ha una trama sconclusionata eppure oggi è riconosciuto come un cult in avanti sui tempi nel panorama cinematografico di allora. Celentano è stato un precursore del trash italiano, vero e proprio ambito estetico che oggi, lungi dall’essere confuso con la mera volgarità, è addirittura oggetto di studi accademici.
  2. Critiche di carattere produttivo: la rocambolesca e dispendiosa fase di pre-produzione e produzione non fa altro che aggiungere mito al mito che in breve tempo Adrian si è creata. La storia del cinema è piena di progetti incompiuti, decennali, mal riusciti che hanno oggi il valore di oggetto sacrale. Come il santo Graal ha il suo fascino nel recare solo le vestigia di un piano (la Seconda Alleanza Neotestamentaria) e sfugge continuamente a chi lo cerca, così le produzioni anti-economiche e imperfette hanno un che di mistico. La misteriosa sospensione non ha fatto altro che aumentarne l’aura di opera maledetta. Il fatto poi che Mediaset abbia speso un patrimonio dovrebbe riguardare gli azionisti dell’azienda stessa (diverso sarebbe stato il caso, per esempio, con la Rai), e se la messa in onda rappresenterà una perdita economica, tanti complimenti a Celentano che, da aspirante anti-sistema, rappresenta una spina nel fianco di una rete in linea teorica opposta alle idee politiche di cui lui si è fatto più volte portavoce. Stesso discorso vale per quanti ricordano le censure agli anime: se la contraddizione di Mediaset è stata riportata all’attenzione, è merito di chi come un tarlo si è inserito nel suo stesso tronco.
  3. Critiche sui nudi in fascia protetta: occorre una riflessione competente sulla storia dei media. Il concetto di fascia protetta nasce in un’epoca in cui la televisione era l’unico medium capace di arrivare direttamente nelle case degli spettatori: aveva lo scopo di individuare nella famiglia con figli un target idoneo, esigenza da cui derivava una censura di contenuti ritenuti non adatti ai più piccoli, proprio perché la responsabilità della televisione era maggiore. Erano i tempi dei palinsesti, di Carosello, dello spettatore passivo. Oggi le immagini ci entrano in casa non solo e non più tanto attraverso la televisione tradizionale: sistemi on demand, streaming Tv, internet, computer, tablet, telefoni mobili, videogiochi hanno rivoluzionato da un lato il rapporto dello spettatore con il flusso mediale, dall’altro la nozione stessa di attività e responsabilità. Fascia protetta, parental control e sistemi affini non bastano più ad arginare le immagini. Più che domandarsi se Adrian vada o meno trasmesso in prima serata, bisognerebbe chiedersi se l’idea stessa di prima serata non sia un residuo.
  4. Critiche di sessismo: premettendo che è sacrosanto individuare le strutture di pensiero sessista e patriarcale nelle varie significazioni attivate da un prodotto mediale, bisogna ammettere che accusare Adrian di sessismo è una mossa un po’ tendenziosa. Vi si trova, è vero, una rappresentazione parecchio ingenua della donna: è però la donna dei fumetti di Manara, quella degli anni in cui Celentano era giovane, delle storie d’avventura con un protagonista maschile. Più che di sessismo, la donna in Adrian semmai pecca di anacronismo, o di dandysmo un po’ estetizzante. In ogni caso, non è mai il punto centrale del discorso. Il sesso in Adrian sta per una riappropriazione del corpo ai danni della tecnica, quindi un discorso ecologico, piuttosto che un’appropriazione della donna da parte dell’uomo. Non si può chiedere a Celentano una piena adesione a una nuova sensibilità che, per quanto auspicabile e da difendere a spada tratta, non gli appartiene. Aggiungeremmo che in un paese dove la televisione trasmette Miss Italia e le veline di Colorado, vere oggettivazioni del corpo femminile, senza che nessuno dica niente, additare proprio Adrian sembra la classica mossa della pagliuzza nell’occhio.

Adrian e Adriano: transmedialità, persone, personaggi

C’è infine un ultimo aspetto da analizzare: Adrian potrebbe finire in un trattato accademico sui media. Sembra esagerato dirlo, non fosse altro che non abbiamo fatto mistero delle numerose imperfezioni, ma a difesa di Adrian c’è un bagaglio concettuale che trascende la tecnica animata, l’analisi filmica classica, la narratologia e tutti quegli aspetti che dovrebbero ritrovarsi in una recensione comune: siamo passati dai meme all’interpretazione segnica, dalla mediologia al framing della semiotica. La verità è che quello di Celentano è un capolavoro di transmedialità: ovvero il fenomeno per cui una narrazione nell’epoca contemporanea non passa più solo attraverso un solo canale ma si disloca fra più tipologie di trasmissione. Di più, Celentano stesso si è fatto medium, con il suo personaggio (o meglio per-sona, nel senso etimologico di maschera di risonanza): non era soltanto ironico il paragone con The Wall di Waters.

Continuando un discorso ecologico e ideologico (banale in modo imbarazzante, sì, ma ciò che conta qui è la forma) che parte con le canzoni Serafino (La storia di Serafino, ndr), Il ragazzo della via Gluck, Un albero di mille piani (Un albero di trenta piani, ndr) negli anni 60, continua attraverso lo steampunk di Yuppi Du al cinema, passa per la televisione di Rockpolitik e 125 milioni… , si definisce come vera e propria estetica a Sanremo 2012 fra monologhi e canzoni dell’album Facciamo finta che sia vero, l’individuo Adriano Celentano culmina l’epopea del suo alter-ego multiforme con una serie animata, che è anche un musical, che è anche uno spettacolo live e televisivo, che è anche una fucina di meme. Innescando così una serie di dibattiti e parodie, i quali non costituiscono altro se non un ulteriore medium narrativo, tramite provocazioni e baracconate che hanno fatto sì la gioia dei memers e dei trash lovers, ma si inseriscono perfettamente nel progetto pervasivo di quel geniaccio della via Gluck. Che di se stesso ha iniziato a fare un meme vivente già anni fa, con il suo strafottente modo di far parlare di sé, parlare di sé, parlare attraverso sé e qualsiasi mezzo gli capitasse per mano.

Piaccia o meno, finora Adrian è l’evoluzione ultima di Celentano: coi suoi mille difetti, gli stessi di cinquant’anni fa, si tuffa nella civiltà del web senza sapere quali saranno gli effetti, ma sicura che gli effetti ci saranno. A chi lo dava ormai fuori dai giochi, Celentano ha dimostrato, facendosi beffa di tutti, di essere tutt’altro che “lento”, bensì ora come sempre “rock”.

Michele Piatti

16/02/2019 – Auralcrave.com

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