Adriano Celentano, il «Molleggiato» che si fece predicatore
di Francesco Prisco
La storia della canzone italiana è un affare di befane. Il 6 gennaio 1937, giorno in cui la tradizione popolare appende calze al camino, ad Asti nasceva Paolo Conte, autore e interprete tra i più influenti dell’ultimo mezzo secolo. Lo stesso giorno di 12 mesi più tardi, esattamente 80 anni fa, a Milano in via Gluck 14, vedeva la luce il figlio di una coppia di emigranti pugliesi con in testa tante cose da dire, prima ancora di aver capito bene come dirle: cantante, attore, regista, personaggio televisivo, opinion leader controverso. Mai scontato, tanto nel bene quanto nel male. Uno, a suo modo, sempre sensazionale.
Compie 80 anni anche Adriano Celentano, tre in meno di quanti ne avrebbe avuti Elvis Presley, al cui ribellismo (generico) resterà nei secoli fedele; due in più di quanti ne avrebbe avuti John Lennon, uno che, al contrario, il Nostro non ha mai compreso fino in fondo. Perché il «grande Adriano» appartiene alla terra di mezzo: rivoluzionario ma anche conservatore, urlatore eppure melodico, «Molleggiato» e insieme mistico, fenomeno da 200 milioni di dischi venduti tra l’Italia e l’estero, record con il quale nessun artista dello Stivale può competere.
C’era una volta il primo festival rock
Percorso da predestinato, il suo. Da ragazzo della periferia a Nordest di Milano, si diverte a imitare Jerry Lewis e vince qualche concorso. Lavora come apprendista orologiaio quando, un giorno, la madre gli regala un disco. In un certo senso sempre di orologi si parlava: era il 45 giri di Rock around the clock di Bill Haley. E fu una via di Damasco: da quel preciso momento Celentano unirà il rock and roll delle origini alla gestualità del Picchiatello ricavandone l’estetica (e talvolta pure la retorica) del Molleggiato. Formula che, il 18 maggio del ’57, al Palazzo del Ghiaccio di Milano gli vale la ribalta del «Primo festival del rock and roll e delle danze jazz», dove si fa notare eseguendo Ciao ti dirò con i Rock Boys. Fino ad aggiudicarsi un contratto discografico.
A Sanremo con la dispensa di Andreotti
Di lì a poco ci sarà l’esplosione de Il tuo bacio è come un rock (1959), l’apparizione come simbolo del nuovo che avanza ne La dolce vita di Federico Fellini (1960), la prima partecipazione, ai tempi del servizio militare, al Festival di Sanremo (1961) con 24mila baci, grazie a una speciale dispensa firmata nientemeno che dall’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti.
Comincia una specie di marcia trionfale tra l’ambientalismo de Il ragazzo della via Gluck, l’anti-progressismo di Tre passi avanti e Chi non lavora non fa l’amore con cui trionfa al Sanremo 1970, hit memorabili come La coppia più bella del mondo e Una carezza in un pugno, il grammelot anglofono di Prisencolinensinainciusol, il pop best seller di Soli, la serie I miei americani, il duetto Mina Celentano da tre milioni di copie.
Cinema tra blockbuster e tentazione d’autore
Con la musica infila record, ma non di sola musica vive l’Adriano nazionale. C’è il cinema, prima con i musicarelli anni Sessanta (uno su tutti: Urlatori alla sbarra del maestro Lucio Fulci, 1960), poi con i blockbuster di fine Settanta/inizio Ottanta, titoli come Bluff, il Bisbetico domato o Innamorato pazzo, replicati per mesi nell’Italia che di sera esce ancora di casa per chiudersi in sala. Pieno di fiducia nei propri mezzi, il Nostro prova a vestire in prima persona i panni del cineasta. I risultati sono alterni: c’è il caso Yuppi Du e c’è il clamoroso flop di Joan Lui, improponibile musical nel quale interpreta un predicatore radicale, forse un nuovo Cristo, calato nelle contraddizioni del Paese di quegli anni. Il pubblico lo ignora, la critica lo massacra. Sembra finito, ma non è mai veramente finito.
Il predicatore televisivo
Continua a far discutere. Nelle apparizioni televisive, per esempio. La più celebre fu la conduzione di «Fantastico 8», quando in diretta su Rai 1 osa scrivere su lavagna, con tanto di anacoluto, «La caccia e contro l’amore», entrando a gamba tesa nel dibattito sul referendum abrogativo del 1987. In tempi più recenti verranno i vari «Francamente me ne infischio», «125 milioni di caz… te», «Rockpolitick», «Rock Economy», concerto-comizio del ritorno in diretta dall’Arena di Verona, programmi salutati da quote di share mostruose, con le canzoni che si alternano a monologhi costellati dalle sue proverbiali pause.
Il Clan e la politica
In tutti questi anni di musica, cinema e Tv è stato pure imprenditore: già nel 1961, per guadagnare piena autonomia a riparo dalle major, lancia Il Clan, prima vera casa discografica indipendente d’Italia, oggi gestita dalla moglie e partner artistica di una vita Claudia Mori. Celentano politico: sincero cattolico (non è raro vederlo a messa, la domenica mattina, nella sua Galbiate), fervente ecologista, no global prima dei no global.
Acclamato dai disimpegnati di destra, piace ai progressisti, non dispiace ai moderati, poi fa arrabbiare tutti e raccoglie, arrabbiato a sua volta, l’abbraccio dell’amico Beppe Grillo nel Movimento Cinquestelle. Vita difficile, con lui, per chi di mestiere appioppa etichette: il ragazzo della via Gluck, in questi 80 anni, è stato tante, persino troppe cose.
Come lo ricorderemo tra altri 80 anni? Nessuno può saperlo con certezza, ma un’idea ce l’avremmo: lui 30enne del 1968, troppo vecchio per stare coi giovani e troppo giovane per stare coi vecchi, camicia floreale sbottonata sul petto che incornicia un vistoso crocifisso, mentre a braccia conserte canta in Tv Azzurro. Pezzo scritto da Paolo Conte, nato il suo stesso giorno di un anno prima. Perché la storia della canzone italiana l’ha scritta il destino.
06/01/2018 – Il Sole 24 ore