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Adriano Celentano raccontato da Gianni Minà nell’autobiografia “Storia di un boxeur latino”

Gianni Minà e Adriano Celentano

Un estratto dall’autobiografia di Gianni Minà Storia di un boxeur latino, edita da Minimum Fax ed in libreria dal 14 maggio 2020, in cui racconta un paio di gustosi aneddoti su Adriano Celentano:

[…] Alla fine l’idea risolutiva era venuta proprio a Brando Giordani che, esausto, un giorno aveva detto: «Perché a questo punto non ripieghiamo decisamente su Celentano?»
Adriano era sempre stato difficile, ma aveva spesso avuto, per gli spettacoli, intuizioni particolari. Il problema era che lui, in una scommessa come questa, finiva per esautorarti, insomma faceva tutto in prima persona.
Così mi ero «immolato» per tutti ed ero andato a bussare da Adriano nella sua villa vicino Milano, la sua casa di una vita, ci abita ancora adesso.
Avevamo deciso pubblicamente di registrare questa puntata iniziale insieme, ma con una sua dichiarazione preventiva: «Sia chiaro comunque che monto io». A quel punto era stato impossibile per me dire di no, anche perché lui è un montatore formidabile. Da ragazzo aveva appreso a usare le dita con finezza essendo andato a bottega da un orologiaio. Ci metteva tantissimo,
ma montava delle sequenze a ritmo di batteria irripetibili. Non c’erano ancora i mezzi tecnologici di oggi (adesso te la fa chiunque una sequenza a tempo di rock’n’roll: prima bisognava farlo a mano). Lui invece le armava con la facilità di un gioco.

Sono stato un mese al suo fianco, anche a cena mangiavo a casa sua, di solito una minestrina. E ogni sera, poi, Brando Giordani mi chiamava in villa: «Cosa avete fatto oggi?» lo rispondevo con la stima del tempo: «due minuti». «Ma così ci metterete dieci anni», controbatteva Brando.
Finché, dopo un mese, Giordani con voce da capo e non più da complice mi aveva preso di petto a Milano: «Gianni, adesso basta, prendi quella pizza e portatela via». A quel punto mi ero girato verso Celentano: «Adrià, credo che stavolta siamo andati propri oltre il limite massimo». Così ero riuscito finalmente a mettermi la pizza sotto il braccio e a correre a Roma, da Brando: «Andiamo subito a vedere la Bibbia che avete montato».
Si trattava di un pezzo di rara televisione, di ingegnoso uso del mezzo come varietà, insomma da gran professionista. E questo nonostante Celentano avesse spiegato: «Gianni, voi fate la televisione, io faccio lo spettacolo, sono due cose diverse».

A quel punto eravamo andati alla Rai.
Ogni numero di Odeon era composto da tre servizi di circa quindici-diciotto minuti. Quello che avevamo in mano durava più di trenta minuti. Lo stile di Odeon era invece quello della sintesi.
Non ci rimaneva che andare a vederlo in moviola, all’Ampex. Brando non diceva una parola, però a fine visione mi aveva sussurrato: «Anche solo per la pazienza, ti regalo una grande pacca sulle spalle. Questo è un pezzo che farà storia. Se vogliamo tenere in piedi il nostro minutaggio, l’unica cosa che possiamo tagliare è il brano su sua moglie Claudia. Ma a uno che ci regala una televisione di questo livello, tu puoi fare lo sgarbo di togliergli cinque minuti della moglie per rispettare il mito della velocità? No, questa volta Odeon utilizzerà unicamente due servizi, non tre, e durerà quanto durano normalmente questi show, non gli tagliamo niente, e va così».

Quando glielo dissi al telefono, non ci credeva.

«Adriano, il servizio va completo così com’è».

E lui: «lo lo sapevo, voi non siete stupidi».

È lì che capii la differenza tra la televisione intesa come io pubblico e la televisione intesa solo come consumo.
Il pezzo di Odeon si intitolava «Ritorno a via Gluck» ed era un vero e proprio esempio di nuova televisione, e di forte nostalgia, di cui sono ancora orgoglioso.

Ma con il Molleggiato era capitato di imbattermi sovente in situazioni surreali.
Per esempio quando mi aveva chiesto un aiuto per incontrare l’avvocato Agnelli, visto che Adriano non riusciva a trovare un mecenate disposto a produrre il suo secondo film, dopo il trionfo nel ’75 di Yuppi du.
Così avevo deciso di accompagnarlo dall’avvocato Agnelli per perorare la causa di Yuppi du. Seconda parte. Non era riuscito a trovare un produttore perché Adriano aveva fama sì di grande rivelazione nel cinema, ma anche di incorreggibile «spendaccione», specie se si trattava di qualcosa che avrebbe dovuto valorizzare una sua creatura artistica come un disco o un film.
Oltretutto, nel varo di questa avventura bizzarra, avevo come compagno di viaggio anche Luca di Montezemolo, allora partner di molte zingarate.
L’inizio era parso vincente: l’avvocato Agnelli, in completo jeans dalla testa ai piedi, proponeva idee e interrogativi a iosa mentre Adriano raccontava la sua idea senza porsi limiti di spese.
Il primo intoppo al progetto arrivò a sorpresa dal cibo: un piatto «minimal», non abbondante per gli occhi «proletari» di Celentano. Alla terza portata, il Molleggiato non aveva saputo resistere: «Ma gli spaghetti quando arrivano?» Una situazione che avrebbe ammazzato chiunque, ma non l’avvocato, che era notoriamente un uomo di classe. Così in pochi minuti era comparso sul tavolo, tra la sorpresa generale, un inatteso e fumante piatto di spaghetti e del possibile finanziamento tra i commensali presenti non si era più parlato.
Il prestigio di Adriano non era bastato. In prospettiva non avrebbe trovato nessuno, a parte se stesso, disposto ad accettare la sfida di produrre e dirigere Yuppi du. Seconda parte.

Lorenzo

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