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Buona vita caro Papà

Adriano e Rosita Celentano

di Rosita Celentano

Papà.
Sopra ogni cosa sei mio padre. Un padre tanto amorevole…e tanto amato!
Quante volte mi sono sentita chiedere: “Com’è essere la figlia di Celentano?”… tu per me non sei Celentano. Sei, naturalmente, mio padre.
Non ho mai saputo rispondere a quella domanda, forse perché per me non è importante.
Mentre è importante tutto quello che sono oggi e che ho imparato da te: onestà, giocosità, allegria, fiducia, lealtà, semplicità, senso del dovere, eticità, spiritualità e bontà.
Sei un papà che mi ha insegnato a premiare le cose giuste piuttosto che punire un errore.
Mi hai insegnato a camminare, non solo metaforicamente, ma anche letteralmente, ad avere portamento.
Io da piccola avevo le gambe a X e portai fino a 11 anni le scarpe correttive. Da adolescente mi vergognavo, così tu mi hai accompagnato a superare il mio cruccio e ad allenarmi per camminare in modo eretto, elegante, deciso, con un ritmo giusto, né troppo lento né troppo veloce, ricordandomi però di non tralasciare mai la femminilità.
Mi hai incoraggiato sempre, anche quando non eravamo d’accordo su qualcosa, lasciavi a me l’ultima scelta; avevo la possibilità di sbagliare.
Senza sentirmi meno amata per questo.
Perché, sbagliando s’impara.
Sei soprattutto stato un esempio, in ogni piccola cosa, dal gioco al lavoro, nei sentimenti, con gli amici, in famiglia, sul palcoscenico.
Sei sempre tu. Uno. Coerente sempre a se stesso, costi quel che costi. Talvolta pagando un prezzo fin troppo salato! Ma non ti sei mai arreso, hai sempre affrontato tutto a testa alta. Perché sapevi che a spingerti è sempre e solo la tua buona fede.
Non ti fai sopraffare dai momenti difficili, anzi, sembra quasi che ti spronino a dare di più… ti stimo anche per questo.
“Il lavoro nobilita l’uomo e allontana dai cattivi pensieri” – dicevi.
Quando io e miei fratelli eravamo adolescenti, per un periodo dopo la scuola e prima dei compiti, facevi fare una pausa ai nostri dipendenti e per 3 ore facevi fare a noi i lavori di casa; stirare, lavare i panni, rastrellare il giardino, pulire i vetri di casa, fare la lavatrice, la lavastoviglie, sistemare gli armadi, etc. etc.
Dovevamo capire il senso nobile del lavoro e non dar per scontato che, vista la nostra posizione privilegiata, ci fosse tutto dovuto.
Mi hai insegnato a volermi bene, ad apprezzarmi, a saper ridere dei difetti e delle debolezze in modo che nessuno potesse ferirmi, o rendermi triste o insicura.
“Sii tu la prima a prenderti in giro. Gioca, perché il gioco aiuta a capire, a crescere, a stemperare, a confrontarsi, a migliorare. Senza il fardello dell’ansia da prestazione. Non prenderti sempre e troppo sul serio” – dicevi sempre.
Ho chiesto a te come si facevano i bambini, come si fa l’amore. E mi hai risposto sempre con tatto e cautela, adeguatamente alla mia età e quanto fossi in grado di capire in quel momento.
Mi hai sempre consolato.
Mi hai sempre detto la verità, anche se certe verità erano dure da sopportare.
“Chiediti se veramente vuoi sapere la verità, perché la verità può essere scomoda o dura a volte – mi dicesti – perché sappi che ogni volta che mi chiederai qualcosa, ti dirò sempre la verità”.
Più crescevo e più le mie domande, per un padre, erano impegnative, ma tu sapevi sempre come rispondere.
Ci hai incoraggiato a imparare quante più cose è possibile: “ …semmai nella vita non riusciste a fare ciò che desiderate, sarete comunque preparati ad accettare altri mestieri” – dicevi.
Uno dei punti fermi nella mia vita da adulta è: “Ricordati Rosita, che bisogna sempre essere onesti. Anche se pensi di farla franca nei confronti del prossimo e nessuno si accorge di una tua scorrettezza, quando la sera sarai a letto, nel momento tra la veglia e il sonno, la tua coscienza sarà lì, sempre con te.
Possiamo fregare il mondo intero ma non noi stessi. I conti alla fine del percorso li facciamo con la nostra coscienza e con Dio.
Se tu sarai sempre onesta, supererai ogni ostacolo con la serenità dei giusti, qualunque cosa accada”.
Sono tanti i momenti vissuti assieme che fanno parte del mio bagaglio di donna adulta.
Quando mi capita di rovistare nei vecchi bauli, trovo sempre tue lettere o bigliettini di qualche ricorrenza oppure semplicemente messaggi carichi di amore e molto comici… come i messaggi lasciati sullo specchio del bagno scritti con la matita del trucco.
Una su tutte, la lettera che mi scrivesti quando a 14 anni e mezzo diventai “signorina”; così si diceva una volta.
Lì per lì non mi resi conto che per te fu un piccolo trauma come padre assistere alla trasformazione della tua bambina in donna.
Mi ha molto commosso rileggerla a questa età, perché ho capito, fra le battute divertenti, l’emotività di un padre che vede la figlia crescere.
Senza dimenticare che quel periodo fu scandito da una tua canzone, Il tempo se ne va che mi mise oggettivamente in crisi.
Ricordo il giorno che tu portasti a casa la bobina col brano appena inciso.
Eh già, parliamo del 1979, quando i provini dei brani di un Lp o 33 giri, prima di diventare dischi in vinile, si ascoltavano su “nastro ”, la “bobina ”, appunto.
Quel pomeriggio, come di consueto quando lavoravi a un album, prima di chiudere il “mixaggio”, chiamasti a casa parenti e amici per un ascolto e libere considerazioni.
Quel giorno non lo dimenticherò mai.
A metà ascolto già tutti piangevano e mi guardavano con aria sconsolata. Io che non capivo se dovevo esser felice o preoccuparmi.
Alla fine tutti ad abbracciarmi mentre tu eri in silenzio con gli occhi lucidi.
Seppi solo parecchio tempo dopo, che quell’incisione ti costò molto, in termini di emozione e che preferivi inciderla solo in tedesco per la Germania, così non eri costretto a sentirla nelle radio nostrane.
Un giorno in sala, sotto le pressioni di tutti perché lo incidessi anche in italiano, dicesti: “Facciamo così, io vado di là in sala incisione, la canto tutta d’un fiato dall’inizio alla fine, se è buona la prima, si stampa il disco, altrimenti, non se ne fa nulla”.
Fu buona la prima.
In famiglia io sono sempre stata quella dalle “domande particolari o esistenziali”, soprattutto quando eravamo tutti riuniti a tavola.
Poco tempo fa ti ho chiesto: “Papà, nella vita tu preferisci aver ragione o essere felice?” “Essere felice” “Anch’io…”.
Buona vita caro Papà, “…conta su di me, come io conto sempre su di te”.

06/01/2018 – Il Fatto Quotidiano

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