Nel nuovo album, il molleggiato affronta politica e crisi nel brano “Il mutuo”. Un’orgia di luoghi comuni buonisti e ambientalisti sempre uguali. E sempre vaghi
di Paolo Giordano
Prima, tutto bene. Anzi meglio del solito: buon disco, insomma. Poi però il diluvio. Di luoghi comuni. Di vaghezza. Di celentanate, a dirla fino in fondo. Per di più tutte concentrate in una sola canzone, l’ultima in scaletta.
E in un solo argomento: l’economia, anche quella ambientale. Il mutuo è l’unico brano che Celentano si sia scritto da solo in un disco corazzato da ospitoni come Franco Battiato, Jovanotti, Manu Chao, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Raphael Gualazzi, Pacifico e l’infinito percussionista indiano Trilok Gurtu. Dunque l’album ha per titolo un’esortazione, Facciamo finta che sia vero: non si sa di che cosa bisogni far finta però qui si parla di Celentano, suvvia, e quindi vale tutto. Però no, questa Il Mutuo non si può far finta che sia vera.
Dai, è soltanto un divertissement. Un giochetto, massì, dopo cinquant’anni e rotti di carriera uno se lo può pure permettere e che diamine. E poi riderci su. Invece nisba. Claudia Mori (ieri in gran forma, è sempre la portavoce in carica del celentanismo) ha confermato che tutto il disco è «una specie di pamphlet». E che «Adriano ha messo in musica quello che da tempo scrive sui giornali o ha detto nelle sue poche apparizioni pubbliche». Quindi nessuna speranza: versi come «risorgeranno i calzolai per ricostruire l’incanto violato dai condoni edilizi» sono autentici anche se neppure in via Gluck sapranno chiarirli.
Via così, da «la solitudine dell’uomo vive nel marcio di quelle bustarelle comuali che concepiscono quartieri già infettati» fino all’apocalittico «verrà pure il giorno che la Cina si inceppa» dopo il quale almeno un miliardo di cinesi magari non si incepperà ma di certo si toccherà all’istante. Proprio là, sapete la scaramanzia va forte anche in Oriente. In poche parole, altro che piano Marshall. Addio alla «rivoluzione keynesiana» e pure all’economia sociale di mercato che piace a Mario Monti. Ora c’è la decrescita, questa sì che è la ricetta.
«Gli Stati invocano la crescita, ma l’unica via contro lo spread per una sana e angelica economia: è la decrescita». Per carità, sembra uno dei celebri monologhi televisivi di Celentano da vent’anni a questa parte. Ma qui non ci sono pause, smorfie, occhiate, risatine. Non ci sono neanche spot per prender fiato. C’è solo la sua voce. E tutto, in questi sei minuti e rotti di celentanismo liofilizzato, sembra così terribilmente serio, persino l’esortazione finale al «boom della bellezza» che ci salverà dal «crollo economico mondiale».
Ed è un peccato. Perché il disco, dilatato nella sua pomposità e nella solita estenuante sovraproduzione, esalta bei brani sin da quando il chitarrone accompagna il vocalizzo iniziale di Non ti accorgi di me o la voce morbida di Celentano indugia sul neorealismo di Anna parte («Anna mette la sveglia e riparte da zero»).
C’è addirittura un momento, in Non so più che cosa fare, scritta otto anni fa da Manu Chao, nel quale si incrociano le voci di Jovanotti, Battiato e Sangiorgi e lì sì che c’è un’intensità forte e unica, autentico punto snodale di un disco nuovo di zecca dopo quattro anni di silenzio. Adesso tocca promuoverlo, magari anche in tv. «Adriano dice che ha in mente un piano forte e inatteso, ma non ce lo racconta e la cosa un po’ mi preoccupa», nicchia la Mori. Farà tv, comunque. Viene da pensare a Fiorello. «No». A un talk show politico. «No» (anche se poi chissà perché ammette la possibilità di un passaggio da Santoro o da Floris). Di sicuro non sarà un programma tutto suo «perché non glielo fanno fare» e intanto «possiamo pensare a qualsiasi cosa, Adriano è uno strano».
Difatti ha persino ricantato La mezza luna, che era il lato B di Si è spento il sole del 1962 e in tutto quel cha cha cha, come si dice, non sembra neanche passato mezzo secolo.
E persino quando, nel pezzo scritto da Jovanotti La cumbia di chi cambia, canta che «io non sono mai stato qualunquista, quelli che dicono che sono tutti uguali, quella non è la mia maniera di pensare, però lo ammetto qualche volta l’ho pensato» ecco lì sì c’è il vero Celentano, quasi quasi vicino a Gaber, uno straordinario giullare del nostro Dopoguerra. Ma quando sgocciola una visionarietà stile Forum di Cernobbio de noantri allora no, si rischia il default. E nessun calzolaio può abbassare lo spread.
25/11/2011 – Il Giornale