Celentano, Saviano e il televoto
Celentano ha un’anima nazionalpopolare, Saviano è radical-chic. Il primo arriva dalla musica, il secondo dalla letteratura. Fenomenologia di due telepredicatori agli antipodi. Che vogliono riempire il vuoto della politica.
di Nanni Delbecchi
Sembra trascorso un secolo da quando Adriano Celentano, dagli studi Rai di Brugherio, teorizzò lo Yin e lo Yang del messianesimo televisivo. «C’è chi è lento e c’è chi è rock» disse Joan Lui. Dal discorso di Rockpolitic (2005), molta acqua e molto spread sono passati sotto i ponti radio. La politica è assai meno rock, l’Occidente non ne parliamo, e anche il telemessia di riferimento non si sente molto bene.
C’è un tempo, e c’è un ritmo, per tutte le cose. Mentre il profeta della via Gluck sbagliava gli uni e gli altri sul palco del Teatro Ariston, all’ultimo Festival di Sanremo, già da un anno era asceso al soglio catodico Roberto Saviano, che invitava con successo gli spettatori a venire via con lui. Ci sono un tempo, un ritmo e un profeta per tutte le cose. L’Italia in crisi ne richiedeva uno nuovo, al passo con il momento cupo, doloroso e difficile, e così si è compiuto il salto di santità. Dal Celentanismo al Savianesimo.
La parabola di Celentano era stata lineare, quasi classica. Cantante e capoclan negli anni Sessanta, attore nei Settanta, conduttore negli Ottanta, guru nei Novanta, para-guru nel Terzo millennio. Saviano invece s’insedia nella popolarità televisiva bruciando le tappe, e soprattutto provenendo non dalla musica ma dalla letteratura e dal giornalismo, evento portentoso nel paese del melodramma e del teleromanzo. Non più il divo che diventa profeta, ma lo scrittore che diventa divo.
Prima c’era stato Gomorra, il libro perfetto di un perfetto sconosciuto. Poi, dal reporter scrittore che aveva raccontato come in Italia la realtà superi sempre l’immaginazione, è nata la star televisiva con la supervisione di Fabio Fazio. Ora sia Fazio sia Saviano e perfino la sua scorta se li contendono i migliori offerenti. «Riporterò Saviano in Rai» ha dichiarato con orgoglio Fazio, come se si trattasse di Pippo Baudo. E proprio in questa sponsorizzazione si può osservare in filigrana una seconda differenza tra vecchio e nuovo telemessianesimo.
Celentano è sempre stato un telemessia nazionalpopolare ma solitario: sia per il suo inarrivabile carisma fisico (quello che lo ha tradito nell’ultima uscita), sia perché conscio che in Italia non c’è individualismo migliore del qualunquismo. Nel leggendario Fantastico 87, aggirandosi tra i comici, le vallette, gli ospiti d’onore gli bastò la sua presenza per fare implodere tutta la memorabilia del vecchio varietà. Così i silenzi diventarono pause, le pause diventarono suspense; il pistolotto sulla fine del mondo o sul Vangelo tradito era lì, in vista sul cinturone, ma il telemessia non premeva mai il grilletto. E quando finalmente sparava, faceva per forza rumore (quanto era rock Ettore Petrolini, che aveva già capito tutto; non importa quello che darai al pubblico, ma quanto glielo farai sospirare).
Saviano, al contrario, è un telemessia radical-chic, ma condiviso. È apparso dal nulla, d’accordo; ma sempre in compagnia di Fazio, l’uomo che da 10 anni conduce il più capalbiese dei talk-show, Che tempo che fa. Avere Fazio accanto, per un ospite televisivo, è come per una banana avere il bollino blu di qualità. Inoltre Saviano ama dividere la scena con qualcuno che non sia l’Altro, ma nemmeno il Doppio. Diciamo una via di mezzo, e anche in questo senso Fazio è perfetto. Qualcuno che gli lanci la palla, il racchettone o lo specchio. Vado via…/ Resto qui…., Quello che ho…/ Quello che non ho…. È dialettica, ma dialettica a fisarmonica, a molle (qui, forse, sta l’anello di congiunzio ne con il Molleggiato), e chiediamo scusa a Theodor Adorno e a Max Horckheimer se per un attimo abbiamo pensato a loro. In mezzo ci sono gli a solo, e anche qui è evidente l’evoluzione della specie, dal sermone pieno d’acqua di Adriano alla narrazione di Roberto, infinitamente più intensa e alcolica.
Celentano è stato insuperabile nei fermoimmagine e nelle pause sia per quanto taceva (quasi sempre), sia per quello che diceva (quasi niente). Mai affondi, moniti, ultimatum sull’Armageddon e altre ovvietà assortite suonarono tanto solenni. Li avesse detti qualcun altro (che so, Giorgio Napolitano), nessuno ci avrebbe fatto caso; ma li diceva lui, in prima serata, ed era quello che contava, perché lui sì che era rock.
Tutt’altra musica quella di Saviano. Le sue narrazioni dolenti e impegnate (non solo mafia, anche stragi, crisi, casta) oscillano tra il country e il rap, con qualche puntata nei canti gregoriani. L’allegria è un’altra cosa. Ma il meglio arriva quasi sempre nelle melodie che puntano dritte al cuore, per cui viene da concludere che Saviano non è certamente lento, ma nemmeno rock. È soul. E da grande della musica soul è l’interpretazione partecipata fino allo spasimo, esattamente opposta a quella del suo predecessore. Niente pause, niente rallenty, niente stop; anzi, un horror vacui inesorabile, un’inquietudine consustanziale, un moto perpetuo tra beccheggi, rullaggi e basculamenti nell’impossibilità di trovare posa un solo istante.
Se Celentano aveva bisogno della tradizione per farla implodere, allo stesso modo Saviano ha bisogno di additare e inseguire nuove frontiere televisive, e proprio lui è la prova incarnata di un’impressionante mutazione della popstar mediatica, quello che ci fa sospettare che, Celentano a parte, il salto stia altrove.
Si disse da subito della sua immagine pasoliniana, di quel suo magnetismo profetico e sofferto; poi qualcuno si è spinto a definirlo «il nuovo Pasolini».
Ora, stando al suo bel libro di esordio, Saviano è davvero una delle rare personalità di prima grandezza apparse sulla scena letteraria e giornalistica negli ultimi anni. Però noi tutti sappiamo che Pier Paolo Pasolini, quello vero, instaurò nei confronti della televisione un’ininterrotta guerra aperta. Quando gli capitava di andarci, in tv, tutto in lui gridava siderale alterità da quel linguaggio; eppure proprio questo rafforzava la sua aura, le sue stimmate di scrittore e di poeta, e spaccava il video (basta fare una capatina su Youtube per averne conferma). Pasolini che duetta con Fabio Fazio non è che sarebbe invedibile; è semplicemente inimmaginabile.
Con Roberto Saviano abbiamo assistito al fenomeno opposto: lo scrittore che diventa telemessia, innescando l’effetto «Savianity Fair» (secondo la brillante definizione di Antonio D’Orrico); e diventa addirittura popstar, quasi senza soluzione di continuità, fino a farci dubitare che la soluzione di continuità non esista più.
Poi spegniamo la tv, andiamo in libreria, eccoci subito circondati dai romanzi di Fabio Volo, Serena Dandini, Ilaria D’Amico. E il dubbio aumenta.
26/06/2012 – Panorama