di Ernesto Assante
A ognuno il suo Elvis. Gli americani hanno avuto il loro, l’originale, unico e irripetibile, il musicista da cui la musica pop moderna ha avuto inizio, la star planetaria, l’icona immortale, il Re.
Gli inglesi, a seconda dei punti di vista, ne hanno avuti almeno un paio, Cliff Richard, oggi Sir, o Bill Fury, o Tommy Steele. I francesi hanno avuto Johnny Hallyday, che ancora a dire il vero se la cava.
Noi abbiamo Celentano.
Lo so, alcuni di voi sorridono, ma si sbagliano. Celentano è stato, per noi, l’Elvis Presley di cui la nostra musica aveva bisogno, il primo a portare il vero del rock’n’roll alle masse, in grado di mescolare a suo piacimento, divertimento, impegno, delirio, indipendenza, restando sulla breccia talmente tanti anni da non saper nemmeno più lui quanti sono e in grado, giusto in queste sere, di stacciare la concorrenza di tutti i suoi colleghi più giovani confermandosi come il Re.
Non sto dicendo che vi deve piacere, o che dovete per forza essere d’accordo con quello che lui dice, ma Celentano è sempre un passo altrove, rispetto a tutti gli altri personaggi ed interpreti della musica italiana. Rock Economy è così, come del resto molte altre cose che Celentano ha fatto, sistematicamente diverse, situate in un territorio della creatività popolato soltanto da lui. Non è più un rocker? Non ne sarei tanto sicuro. In fondo se è vero che il rock “è un modo di fare le cose”, il suo modo è molto rock, irregolare, imprevedibile, insensibile alle regole dettate da qualcun’altro che non sia lui (o Claudia Mori). e poi chi altro, dalle nostre parti, a settant’anni è in grado ancora di scegliersi compagni di viaggio come quelli che Adriano si è scelto per il suo ultimo album. Certo, direte voi, potrebbe rischiare di più, in fondo è Celentano, potrebbe diventare come Johnny Cash e trionfare, invece troppo spesso, musicalmente parlando, gli basta molto meno, si accontenta di qualche melodia di suo gusto e di testi adatti al suo pensiero, restando sfortunatamente legato alla nostra provincia. Mentre quando era giovane tutto era tranne che provinciale, portava, invece l’internazionalità generazionale interpretata a suo modo, con il rock’n’roll certamente, ma anche con gioielli come Mondo in Mi7, o Prisincolinensinaciusol, o la sua errata critica al beat di Tre passi avanti, o Il ragazzo della via Gluck, pezzi che tutto erano musicalmente tranne che provinciali. Anche oggi, del resto, Celentano è diviso, tra la melodia tradizionale, della quale è diventato una classica voce, e le tensioni moderne, che però recentemente lo hanno spinto verso collaborazioni di grande respiro, con Battiato, con Giuliano Sangiorgi, con Manu Chao, con Jovanotti, con Piovani. Non è “lento”, Celentano, o almeno fa del suo meglio per non esserlo, anche quando diventa declamatorio, anche quando parte con i suoi sermoni, che sono il suo tentativo di fare qualcosa per cambiare il mondo.
Rock Economy è interessante soprattutto per la musica dal vivo, perchè come Dylan, come McCartney, Celentano rilancia se stesso oltre i settant’anni, ribadendo che non c’è pensione per un artista che vuole restare tale, che ama cercare, parlare, esprimersi, creare, che non sa! fare altro, che non vuole fare altro, che non può fare altro. E questo lo conferma Re del nostrano panorama, una regalità che, ci piaccia o no, è ancora saldamente nelle sue mani.
09/10/2012 – assante.blogautore.repubblica.it