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La condanna di Celentano

Adrian - Invito Orologiaio

di Gianni Santoro

Celentano è come Sanremo. Sanremo è Sanremo, recita l’adagio. E Celentano non può essere altro che Celentano. Una figura mitica dell’immaginario del Paese sempre uguale a se stessa. Era semplicemente Celentano quando recitava per Corbucci in Sing Sing, quando faceva l’Innamorato pazzo per Castellano e Pipolo, ed era l’apoteosi del celentanismo quando diventava Joan Lui, flop colossale come solo le ambizioni dei più grandi possono essere. Era Celentano che faceva Celentano anche quando cantava classici statunitensi ai tempi dell’album I miei americani. E anche se diventa un orologiaio in un cartone animato distopico dalla gestazione decennale come Adrian diventa inevitabilmente Celentano che fa Celentano. Sembra una maledizione: il personaggio è sempre più forte del contenuto. Celentano riuscirà mai ad essere altro?

Nella figura di Celentano si concentrano tutte insieme l’ineluttabilità del destino dell’eroe, costretto a vincere, la drammaticità dei grandi personaggi della tragedia greca, segnati da un fato che non può essere riscritto, e il rischio stesso dell’arte quando diventa così ingombrante da non poter essere gestita con serenità. Ma questa maschera senza tempo finisce inevitabilmente per farsi carico anche di responsabilità che non le spetterebbero. Che colpa ha Celentano del tempo che passa? Eppure ogni sua uscita – sempre più rare, l’ultima era stata nel 2012 con Rock Economy – diventa un’occasione per il Paese per fare i conti con se stesso e per cercare di fermare il tempo. E possibilmente riportarlo indietro: se nel cartoon Celentano si fa disegnare giovane e bello, perché non dovremmo credere che “là dove c’era l’erba e ora c’è una città” non possa tornare verde e rigoglioso; perché non dovremmo illuderci che gli ascolti degli eventi televisivi possano tornare ad essere da Prima Repubblica (lunedì Adrian su Canale 5 ha raccolto quasi sei milioni di telespettatori, superato per share dalla quarta puntata della fiction La compagnia del cigno); perché non tornare a quando Heather Parisi ballava con lui Susanna a Fantastico invece di litigare sul sovranismo.

Celentano non può essere altro che il Celentano del passato, perché dal suo esilio volontario esce sempre meno volentieri, le apparizioni in tv in venti anni si contano sulle dita di due mani, un solo album di brani inediti in dieci anni, Facciamo finta che sia vero, il mondo del cinema ormai abbandonato. Per lanciare Adrian canta Prisencolinensinainciusol, del 1972. Celentano celebra Celentano, sempre. Nella sua totale ossessione per il proprio personaggio e per la difficoltà di gestirlo senza metterne a rischio l’eredità, nella sua assoluta autoreferenzialità è la star più vicina a Michael Jackson che l’Italia abbia mai avuto. Il “re degli ignoranti” uno, il “re del pop” l’altro.

Negli ultimi dieci anni della sua storia Jackson pubblicò solamente un album di inediti e si esibì solamente in due concerti, proprio come Celentano. Però era sempre, costantemente impegnato ad essere Michael Jackson, non poteva essere nessun altro: per andare a fare shopping indisturbato in Bahrain nel 2006 si travestì con un burqa. Jackson era ossessionato da Jackson, perseguitato da se stesso e dal proprio passato. Perché Jackson era Jackson.

Ma poi c’è un momento in cui ci illudiamo che l’adagio possa diventare un altro e ci ricordiamo da cosa è partito tutto: dalla musica. Come a Sanremo, dove ogni anno si ripete “questa volta l’attenzione è tutta per le canzoni”. E quindi ci si chiede se possa succedere anche con Celentano: torneremo a parlarne per la sua arte, non per il suo celentanismo. E invece poi ogni anno, indipendentemente dalla musica, Sanremo è Sanremo. E se Celentano si “limitasse” a fare musica che fine farebbe il mito su cui tanto ci piace arrovellarci? Di cantanti ne esistono molti, di
miti pochi. E allora Sanremo sia Sanremo. E anche Celentano sia Celentano.

23/01/2019 – La Repubblica

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