L’Apocalisse di Celentano “Guerriero per il bene del mondo”
Il patron di Slow Food incontra il cantante alla vigilia dell’uscita del disco “L’animale”
Doppio cd antologico. Due inediti: “Sognando Chernobyl” e “La cura” di Franco Battiato
di CARLO PETRINI
“MAMMA MIA zio, è la prima volta che ti sento così pessimista! Ti conosco da quando sono nata e mi sei sempre parso l’uomo più ottimista della terra, così quasi mi spaventi”. I limpidi occhi azzurri di Marta, la nipote venticinquenne di Adriano Celentano, lo guardano quasi come se non lo riconoscessero più. Abbiamo appena finito di ascoltare un’altra volta “Sognando Chernobyl”, l’inedito inserito nella nuova raccolta antologica “L’animale”.
Siamo a casa sua e lo zio Adriano risponde affettuoso: “Però se essere pessimisti spaventa, allora è un buon segno. Vuol dire che si smuove qualcosa. Chi si spaventa di solito è pronto a intervenire perché le cose possano cambiare”.
Celentano aveva appena finito di dire che, a forza di leggere notizie che riportano scenari catastrofici per il futuro, oggi è davvero difficile aver ancora fiducia: “Io mi illudo di dare un contributo, e spero che tanti altri lo facciano, ma ormai mi ritrovo pessimista sulle reali possibilità di un cambiamento”. Infatti Sognando Chernobyl è una suite di più di dieci minuti che potrebbe essere tranquillamente soprannominata “l’apocalisse secondo Adriano”.
A una musica ritmicamente “ossessiva” si sovrappongono rumori di crolli, tuoni, grida, mentre il ritornello non lascia spazio a dubbi: “Tutti quanti insieme salteremo in aria bum!”. Inizia come una preghiera, rivolgendosi a quel Dio cui Adriano fortemente crede, e in effetti continua a metà strada tra un requiem e una Geremiade biblica: “Mi sono immaginato il popolo, che è rappresentato dal coro che risponde, di fronte a un pazzo che gli parla, il giullare che lancia gli strali in uno scenario apocalittico” rivela Adriano.
C’è poco da stare allegri e soprattutto ce n’è per tutti: da chi uccide i bambini ai sindaci che con “le loro giunte meschine” sono i “mandanti di quelle colate di cemento che hanno seppellito gli orti e le bellezze dei navigli”. È un’invettiva contro i politici “pronuclearidi” e contro la pena di morte. “Ormai la Terra è contaminata dal calore forte dei disonesti” e un altro tema forte della canzone è il surriscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, il mondo che finisce: con veemenza Adriano prosegue il percorso iniziato nel 1966 con “Il ragazzo della via Gluck”.
Con quel pezzo Celentano è probabilmente stato il primo artista rock al mondo a inserire temi ecologici all’interno delle sue canzoni. L’uscita di L’animale riafferma questa sua vocazione, essendo l’antologia divisa in due cd che contrappongono le canzoni d’amore del repertorio (con l’altro inedito, una versione di La cura di Battiato) a quelle contro, dell’impegno politico e della protesta. Si tratta di grandi classici che hanno anche 40 anni alle spalle, ma che rimangono di un’attualità sorprendente in questo particolare momento storico. Basti pensare a “Svalutation” o a “Mondo in Mi 7ª”.
Celentano prima ha portato e reso popolare il rock’n’roll in Italia, poi l’ha trasformato da musica di svago a strumento per lanciare messaggi forti; in seguito addirittura ha praticamente inventato il rap con “Prisencolinensinainciusol”: è sempre stato un artista “avanti” rispetto al suo tempo, un artista senza tempo. Non è un caso che nel ’66 “Il ragazzo della via Gluck” suscitò l’interesse di un altro grande che sapeva mirabilmente vedere al di là del proprio orizzonte. Pierpaolo Pasolini lo cercò per girare un film sulla distruzione della vita contadina da parte dell’urbanizzazione ma poi non se ne fece nulla.
A quei tempi Antonio Cederna parlando di disfacimento urbanistico scriveva di “quartieri nemici dell’uomo”. “Ho sempre attaccato architetti, geometri, funzionari e i Comuni che massacrano i volti delle città. Anche la città dovrebbe riconciliarti con il mondo. Magari esci di casa e sei teso perché hai litigato con i tuoi familiari o hai dei problemi e cerchi qualcosa che ti restituisca il respiro, invece io esco, vado in città e mi incazzo ancora di più. Allora dico che sarebbe bene tornare a fare i contadini, la vera risorsa forse a questo punto è l’agricoltura”. È musica per le mie orecchie, ma come fare per questo ritorno?
Adriano vuole farmi vedere in anteprima il video di dieci minuti e mezzo di Sognando Chernobyl che sta terminando di montare in casa da sé, come un bravo artigiano. Le immagini nulla aggiungono e nulla tolgono al climax che la canzone stabilisce. Ci sono un paio di passaggi davvero forti ma mi colpiscono di più le parole che Adriano ha aggiunto al filmato rispetto a quelle del pezzo: “Solo l’utopia potrà salvare il mondo, se non è già troppo tardi”. Ecco il pessimismo che spaventa la nipote Marta: “Se è già difficile fare andare d’accordo poche persone in una famiglia o in una piccola comunità, come si fa a far andare d’accordo il mondo intero?”.
Gli riporto ciò che dissi alle comunità contadine di Terra Madre. “Chi semina utopia raccoglie realtà”, e il suo sorriso si fa sornione: “È vero, infatti se ascolti bene la canzone, alla fine, dopo che è saltato tutto in aria, c’è la parte di violoncello. È una voce solitaria, esile e dolce, che però dà speranza. In agricoltura si usano i semi, e i semi in sé contengono già il futuro, quel violoncello è come un seme che è sopravvissuto”.
A ben vedere quindi le vie d’uscita ci sono, e nel video a un certo punto si legge: “L’uomo deve ripulire il pianeta e recuperare le due anime di questo capolavoro sospeso nel cielo. Due anime senza le quali inevitabilmente il mondo precipita. Un tempo queste due anime, il passato e il futuro, erano legate dalla bellezza di un unico cordone ombelicale”.
Dico che secondo me è importante non dimenticare le tradizioni, la propria identità, avere memoria: “Io non disdegno il progresso – mi risponde – ma l’uomo si è gettato diretto nella sua corsa al progresso come un missile, dimenticandosi completamente di chi era, del suo passato: guarda a che punto siamo arrivati. Mi piace immaginare invece un mondo dove ci siano ponti che collegano queste due dimensioni, queste due anime, passato e futuro. È un po’ come dovrebbe essere una bella città. Ad esempio New York mi piace, e sono proprio i ponti che collegano la sua parte più moderna con ciò che c’è attorno che la tengono ferma nella realtà, nel suo presente, senza che volti le spalle a ciò che era”.
Adriano è un uomo che invece probabilmente ha fatto fatica a vivere nella sua realtà, sono cinquant’anni che è un idolo incontrastato. Quando chiunque ti vuole fermare per strada per stringerti la mano diventa difficile avere un’esistenza normale, una vita privata. Sono incuriosito da quest’aspetto della sua vita ma lui non sembra patirne più di tanto, ha i suoi modi di tenere i piedi ben piantati in terra.
Mi porta in una stanza dove c’è un tornio industriale: “Quando ho tempo mi rilasso e realizzo qualcosa, mi piace l’idea di costruire oggetti precisi, il pezzo di una macchina che funziona”. Adriano ha il tempo dentro e non è un caso che a 70 anni conservi la purezza di un bambino, quella purezza che gli fa raccontare le cose come stanno senza giri di parole. Quella purezza che in fondo è anche dell’animale. Da qui il titolo scelto per il disco: “È Lorenzo (Jovanotti) che mi definisce così, perché dice che ho l’istintività e la conseguente capacità di amare che hanno gli animali. Dire le cose come stanno o saper amare ha più a che fare con l’istinto che con altro. L’uomo infatti è più feroce degli animali”.
Parliamo d’amore allora: mi fa sentire la sua versione di La cura. Gli dico che se mentre la si sente si immagina che le parole invece di essere rivolte alla persona amata siano rivolte alla Terra, al nostro pianeta, il pezzo assume addirittura un significato più grande, diventa il contralto ideale allo scenario apocalittico di Sognando Chernobyl.
Adriano si illumina: “Infatti forse la vera cura ai mali del mondo resta l’amore, quel tipo di amore disinteressato che ti fa prendere cura delle cose, le conserva, le protegge, ne ha memoria”. Eccolo l’animale, quello che è meno feroce dell’uomo, che non spaventa, non fa paura. Marta lo sa: non siamo di fronte “all’apocalisse secondo Adriano”, ma l’artista senza tempo, con il tempo dentro, in realtà ci sta suggerendo la cura.
28/11/2008 – La Repubblica