A maggio di cinquant’anni fa il colpo di genio firmato Paolo Conte e Vito Pallavicini, ‘Azzurro’, cantata da Adriano Celentano. Castaldo: “La canzone non parlava del 1968 eppure sembra catturarne l’essenza, così come a volte fanno le canzoni, con quello che non dicono, ovvero con un gigantesco sottotesto”
In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell’anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l’intervento di Gino Castaldo, giornalista di Repubblica e scrittore.
Si potrebbe partire da un paradosso, dicendo che le più rappresentative canzoni italiane del 1968 sono quelle degli anni successivi, perché per la musica quell’anno fu soprattutto un’incredibile semina, che germogliò col tempo, a meno che non pensiamo a quel furore di lotta che generò slogan pronti e già fatti per essere cantati a squarciagola nelle strade dei cortei: ‘Contessa’ per intenderci.
In realtà c’erano già all’opera Guccini e De André. Guccini aveva inventato le prime canzoni di “coscienza” vagamente politica, ‘Dio è morto’ sopra ogni altra, e poi ‘Auschwitz’, mentre De Andrè declinava il suo lessico antiborghese dal suo eremo intellettuale, al riparo da piazze e concerti.
Di segni però ce n’erano tanti, perfino a Sanremo, dove per la prima volta, anche per espiare il senso di colpa dovuto al suicidio di Tenco dell’anno precedente, vinse un cantautore, l’elegante e rigoroso Sergio Endrigo. Ma in realtà ci sono almeno due canzoni esemplari, apparentemente lontane da tutto quello che suonava sessantottino, e che invece dicono tanto di quell’anno, di quel periodo, delle trasformazioni profonde e irreversibili che stavano scuotendo la trama storica e sociale del nostro paese.
La prima si intitola ‘Vengo anch’io’, uscì a marzo e la cantava il più stralunato e irriverente dei cantanti, il milanese Enzo Jannacci, che di solito parlava di emarginati, poveracci, barboni e squilibrati. Ma per l’appunto si era nel 1968, e anche quello spiritoso “vengo anch’io, no tu no”, sembrava alludere a desideri di partecipazione, ironici e dissacranti, anche se il testo fu in realtà censurato, con l’accordo dell’autore, perché in origine molto ma molto più violento, estremo, eppure, grazie anche a quel minimo di cautela, l’esito fu clamoroso.
Il pezzo andò in classifica, e anche questa novità portava la firma del 1968. A maggio uscì l’altra prodezza, un colpo di genio firmato da Paolo Conte e Vito Pallavicini, intitolato ‘Azzurro’, e a portarlo dritto nel cuore e nell’immaginario collettivo degli italiani fu Adriano Celentano. La canzone non parlava del 1968 eppure sembra catturarne l’essenza, così come a volte fanno le canzoni, con quello che non dicono, ovvero con un gigantesco sottotesto. Dietro le strofe di Azzurro, dietro lo spaesato e malinconico marito rimasto in città in piena estate, che rimpiange esotismi e storie mai cominciate, c’è tutto un mondo di cambiamenti, c’è una società in cammino, “che all’incontrario va” esattamente come il treno dei desideri, tutto ribaltato, vecchio e nuovo, passato e presente, famiglia e solitudini. Ovviamente sotto un cielo completamente azzurro.
03/05/2018 – Agi Agenzia