TORINO – “Il salario della pauraâ€? è un film di Georges Clouzot. In Italia, nel ’55, la censura bigotta di Mario Scelba e di Giulio Andreotti giudica il titolo troppo “rivoluzionarioâ€? ed impone che gli venga cambiato il nome in “Vite venduteâ€?.
Non cambia la sostanza. La pellicola racconta di quattro disperati che accettano di trasportare un camion pieno di nitroglicerina lungo una strada disastrata del Sudamerica. Il finale è scontato: le ruote che saltano in aria ed un solo sopravvissuto.
Oggi, nella realtà , le vite vendute non guidano camion carichi di esplosivo, ma stanno agli angoli di una strada o di una piazza in attesa. Per loro, il salario della paura arriva a bordo di una station-wagon o di un Fiorino.
Chi offre il lavoro a domicilio ha gli abiti che profumano di fresco e due telefonini cellulari per mano. Modi sbrigativi, poca voglia di parlare. Ma non sbagliatevi: non si tratta di un imprenditore o di un selezionatore di personale. Lui è un caporale.
Borgo Dora, a due passi dal Sermig, piazza Stampalia, piazza Bengasi e Porta Nuova. Siamo a Torino e questi sono i luoghi dove chi ha l’esigenza di portare il pane a casa può trovare quel che cerca. Nel nome dello sfruttamento.
Vite vendute, per buona pace di Scelba ed Andreotti, dunque.
Vite sospese su di un’impalcatura, senza caschi di protezione, senza imbracature e soprattutto senza una vera assunzione con relativa assicurazione. Lavorano alla giornata, nei cantieri della Torino “Always on the moveâ€?, sempre in movimento, ma soprattutto nella sua provincia.
Sono le cinque e mezza del mattino. Il buio e il freddo invernale sembrano indurire ulteriormente i loro volti. Fumano. In mano una busta con il pranzo. E aspettano. Poi arriva lui, il caporale. C’è chi lo conosce già e c’è chi invece deve chiedere, quasi come se stesse elemosinando, dieci ore di lavoro.
Il caporale carica la “merce umanaâ€? sulla vettura e parte. Chi avrà fortuna tornerà a casa con una misera paga giornaliera. Altrimenti diventerà un articolo di cronaca, da leggere l’indomani sul quotidiano cittadino. E questo rischio è molto alto.
Ma com’è la loro giornata? Cosa li aspetta dentro i cantieri circondati da un muro di lamiera?
Per capire meglio non ci resta che farci assumere.
Dopo due giorni di appostamento capiamo come funziona. In piazza Stampalia c’è molto movimento, ma anche in piazza Bengasi non si scherza. Vogliamo vedere da vicino. Chiediamo anche noi lavoro per strada. Ma risultiamo poco credibili. Troppo italiani. E poi dopo che la televisione ha parlato per giorni di caporalato a Milano e a Roma, i “reclutatoriâ€? stanno molto attenti con chi hanno a che fare. Così decidiamo di muoverci in un’altra maniera. Invece di farci caricare saremo noi a bussare alle porte dei cantieri. Individuiamo nel Canavese un possibile obbiettivo. Da Ciriè a San Maurizio, passando per San Francesco al Campo fino a Venaria. Una sorta di quadrilatero costruito con il sudore.
Sembra quasi che le imprese edili abbiano fiutato il business. Ma non solo loro. A quanto pare, secondo fonti ben informate, anche qualcuno legato alle cosche della ‘ndrangheta calabrese e della mafia siciliana, ha qualche interesse nella zona. Si parla di una cosca in particolare. Su questa vicenda si indaga da tempo.
Tanti cantieri, tanto lavoro. Facile equazione.
Ma chi sarà disposto ad assumere due italiani senza documenti e in nero?
Lungo la statale che porta in queste zone è diventato normale incrociare alle prime ore dell’alba sagome di uomini in tenuta da lavoro.
A Ciriè, ci avviciniamo ad uno di questi. Un ragazzo romeno, sui trent’anni. È fermo in un angolo della strada. Anche lui ha il pranzo in una busta.
«Senti abbiamo bisogno di farci la giornata. Sai dove possiamo chiedere?» – domandiamo.
«Ma voi non siete romeni?» – ci risponde con stupore.
«No, però abbiamo bisogno di lavorare lo stesso».
Superata la diffidenza ci indica un cantiere dove, come dice lui, «troverete quello che cercate».
Il posto di lavoro è a pochi metri dall’ospedale. Un’impresa sta costruendo quattro palazzine, da otto e dieci piani ciascuna. Entriamo. Chiediamo ad un ragazzo che ci porta dal capo-mastro. Non ci fa domande, non ci chiede documenti. «Ok, non c’è problema. Incominciate ora e finite alle 16. A fine giornata vi do 15 euro a testa». Prendere o lasciare. Ora siamo due fantasmi. Manovali. Dobbiamo scaricare i camion dal loro contenuto: pile e pile di mattoni, materiale laterizio, da trasportare a mano a ridosso delle palazzine che stanno nascendo dal terreno. Con noi ci sono altri fantasmi. In totale siamo cinque. Nessun casco in testa, nessuna scarpa anti infortunistica.
Sono le sette del mattino. Il lavoro è duro. Tra uno scarico e l’altro possiamo scambiare quattro parole con i nostri colleghi. Sono tutti romeni e quasi tutti hanno la stessa storia da raccontare. Dorian ha 26 anni ed è arrivato in Italia da quattro mesi. «Ho incominciato a lavorare nei cantieri il giorno dopo il mio arrivo. Prima ero a San Maurizio, ora qui. Non è difficile trovare lavoro: vengono in piazza a chiederti se vuoi andare con loro». Inoltre Dorian ci avverte che la giornata non finirà alle 16, come ci ha detto il capo, ma durerà fino alle 18, sempre per 15 euro. Emilian invece di anni ne ha già 36. Ha una moglie e due figlie. Lui è un veterano del lavoro in nero: «Ho fatto il cameriere, portavo i pacchi per un negozio, l’imbianchino e ora il manovale. Non mi hanno mai assunto. Sempre solo promesse. Per qualche settimana lavorerò qui dentro. Poi chi lo sa?». Già . Tra quindici giorni probabilmente sarà di nuovo in vendita.
Mentre posiamo a terra i mattoni guardiamo in alto. Sopra le nostre teste un uomo è impegnato a portare materiale su di una trave. Senza imbracature, come un equilibrista al circo. Ma sotto di lui non c’è alcuna rete. Una scena che ci toglie il fiato. Potrebbe cadere nel vuoto da un momento all’altro. Così, ascoltando le voci dei lavoratori, scopriamo che chi ha il casco in testa è italiano.
Nel cantiere non c’è ombra di nordafricani. I magrebini non vengono presi alla giornata, perché se dovesse mai arrivare un controllo per il padrone sarebbero guai. Infatti, mentre i romeni ormai sono comunitari, marocchini e tunisini restano “extraâ€?. Chi assume in nero deve stare attento. Nel primo caso è prevista una multa salatissima, ma nulla di penale. Mentre nel caso in cui lavoratore in nero sia extracomunitario scatterebbe immediatamente l’accusa di istigazione a delinquere, per via della Bossi-Fini. In fatto di leggi stupisce anche che il caporalato non sia perseguibile in ambito penale. Si tratta infatti di “interposizione di mano d’operaâ€?, quindi un altro semplice reato amministrativo.
Emil conosce bene i caporali. Lui è stato caricato a Torino e portato qui alcuni giorni fa: «Sapevo da alcuni amici che venivano a cercarti per lavorare. Così ho aspettato. Poi con una macchina un mio connazionale mi ha portato in cantiere».
Sono le dieci e mezza. Per noi è arrivato il momento di andare via. In precedenza avevamo adocchiato una porticina laterale creata tra le lamiere. Decidiamo di evadere. Quando saliamo in macchina il senso di nausea e disgusto per quello che abbiamo visto e per come è stato facile diventare fantasmi tra fantasmi è indescrivibile.
Scene che ricordano quelle del film di Ken Loach “In questo mondo liberoâ€? e le parole del regista: «Lo sfruttamento è cosa nota a tutti. Quindi non si tratta di una novità . La cosa che ci interessa di più è sfidare la convinzione secondo la quale la spregiudicatezza imprenditoriale è l’unico modo in cui la società può progredire; l’idea che tutto sia merce di scambio, che l’economia debba essere pura competizione, totalmente orientata al marketing e che questo sia il modo in cui dovremmo vivere. Ricorrendo allo sfruttamento e producendo mostri».
Ormai è mezzogiorno.
Fuori dal cantiere è un via vai di donne e uomini, impegnati nelle faccende quotidiane e nello shopping. Dentro a quelle lamiere invece restano chiusi i fantasmi. Usciranno da quel luogo solo quando sarà nuovamente buio.
Andrea Doi
14/01/2008 – TifeoWeb.it