di Cristiano Gatti
Per molti di noi era iltempo delle mele. Ci siamo distratti un attimo e sono passati quarant’anni. Dal tempo delle mele al tempo delle mele cotte. Adesso, in questa stagione strana e avanzata, è sempre consolante scoprire che qualcosa di noi, della nostra età migliore, è sopravvissuto al frullatore della storia e del costume, diventando intramontabile, avviandosi all’immortalità. Nel suo piccolo, persino una canzone.
«Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo». «Cerco un po’ d’Africa in giardino, tra l’oleandro e il baobab». «Lei è partita per le spiagge ed io son solo, quaggiù in città». «Non c’è il leone, chissà dov’è». «Ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va». Strofe che tornano alla rinfusa, che si accavallano, qualche volta storpiate e riadattate nel modo più arbitrario e strampalato. Sotto la doccia, in comitiva sui pullman, alle feste di classe. Forse abbiamo dimenticato i versi di A Silvia e della Pioggia nel pineto, ma questi non sono sfumati mai.
Azzurro: parole di Vito Pallavicini, musica di Paolo Conte, canta Adriano Celentano. Secondo recenti sondaggi, la canzone italiana più cantata all’estero: più di Volare, più di ’O sole mio. Dopo Celentano, l’hanno cantata tanti altri:da Mina a Fiorello, da Renzo Arbore e Mino Reitano, da Albano ai Ricchi e Poveri. L’abbiamo cantata, prima o poi, tutti quanti noi. Amarcord di un’estate particolare. Alla chiusura delle scuole e delle fabbriche, la nostra industria della canzone lancia sul mercato la sua brava dose di dischi balneari. Sono brani che in modo quasi onomatopeico esprimono sole, caldo, salsedine, afa, sabbia, ombrelloni e pomiciate. In questo 1968, a Parigi hanno già avuto «il maggio del ’68», inconfondibile marchiostorico, mentre la Primavera di Praga sta già girandosi in un plumbeo bagno di dittatura.
Qui da noi stanno arrivando solo i primi segnali, le prime avvisaglie, le prime contaminazioni della grande contestazione europea. Ci resta ancora qualche mese per trascinare in là il febbrone nazionale del boom economico, condensato di consumismo e di ottimismo sbocciato tra le macerie della guerra e destinato ad esaurirsi proprio sul finale di questa estate. Il primo disco a sbancare i botteghini è Luglio (col bene che ti voglio, diremo negli anni a venire), motivo di Riccardo Del Turco che diventa subito tormentone popolare. A seguire, Hoscritto t’amo sulla sabbia, di Franco IV e Franco I: e il vento a poco a poco, se li è portati via con sé… La hit parade del periodo incorona i due inni all’amore salmastro, Luglio orecchiabile, ottimista e a lieto fine, Ho scritto t’amo sulla sabbia più macerata e fatalista, più intellettuale e pessimista, entrambe comunque intrise di mare, di iodio e di buoni sentimenti.
Nella Hit del 15 luglio, però, compare al nono posto una canzone decisamente un po’ più strana, che irradia tutta un’altra atmosfera, meno spensierata e leggera, meno sentimentale e romantica: sa di città, di sudore, di noia, di solitudine. «Lei è partita per le spiagge, ed io son solo, quaggiù in città». Le note di Paolo Conte, che per indole personale non può certo comporre melodie mattacchione, e la voce trascinata di Celentano formano una miscela perfetta. Gli italiani cominciano a cantare anche Azzurro. Il disco inizia la sua corsa. Il 17 agosto è terzo in classifica, dietro alle duecanzoni leader. Ma già una settimana dopo è seconda, e dal 7 settembrefa ilgolpe: per un mese, fino a quando l’estate non sarà fatalmente e malinconicamente svanita, resterà al primo posto delle vendite.
Ma questo primato, scopriremo negli anni a venire, non sarà un traguardo: sarà solo un punto di partenza, per il viaggio che ancora non è finito. L’hanno cantata i nostri padri, la cantano i nostri figli. Quale sia il suo segreto, difficile dire: ci sono incantesimi che non hanno spiegazioni logiche. Proprio perché sono incantesimi. Studiosi appassionati hanno espresso idee molto suggestive. Nel libro che celebra i quarant’anni (Azzurro, editore Donzelli), Fabio Canessa chiede e si chiede: «Non sarà che il provvidenziale incontro tra Adriano Celentano e Paolo Conte abbia creato, in quel benedetto e maledetto Sessantotto, la giusta alchimia per far emergerel’identità più autentica degli italiani, sempre miracolosamente in bilico fra ortodossia e trasgressione, fra l’essere antitaliano e arcitaliano, fra attaccamento alle radici e attrazione per i modelli d’oltreoceano, fra religiosità e disincanto, fra malinconia e umorismo, tra reale e surreale?».
Cosa rispondere: sì, può essere. Può essere tutto. Resta la realtà indiscutibile e magica dell’evergreen, di questi capolavori capaci di cavalcare sopra il tempo, oltre le mode e i gusti, restando imperturbabili nella loro eterna originalità. Certo converrebbe fermarsi a questo, che è già molto. C’è chi invece, indiverse stagioni, non ha esitato a spingersi oltre, proponendo persino Azzurro come inno nazionale, al posto di Mameli, con il suo elmo di Scipio e la sua manìa di stringerci a coorte. Azzurro ancora meglio di Va’ pensiero. Ma tutto questo,diciamolo, esce dal campo dell’umano ed entra direttamente in quello del fanatismo spinto. Allora perché non aprire legislature, commemorazioni, partite della nazionale con «Quella sua maglietta finaaaaa»?
Via, prendiamo Azzurro per quello che è. Un grande, indimenticabile, inspiegabile capolavoro di leggerezza. Personalmente evito di definirlo «la colonna sonora della nostra vita». Lo diciamo troppo, lo diciamo sempre, lo diciamo di tutto. Azzurro non può esserlo, perché non si porta dietro i ricordi soavi e dolcissimi dei primi amori e dei primi baci. È un’altra cosa. Azzurro non ha «neanche un prete per chiacchierar».
14/12/2008 – Il Giornale