In un articolo sul Corriere, tutti i limiti del profeta molleggiato.
di Paolo Madron
Adriano Celentano, almeno stilisticamente, dovrebbe inseguire la coerenza. Invece non c’è contraddizione più stridente, per un ex profeta del rock, che scrivere un articolo lento, lentissimo, sintatticamente sconnesso e assai irrispettoso persino dell’ortografia. E soprattutto lungo, prolisso all’inverosimile.
«Se parli male, pensi male» era una fortunata battuta di un film di Nanni Moretti. Figurarsi come pensa uno che scrive così. Figurarsi cosa deve aver pensato Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, nel leggere la lunga articolessa del cantante (vedila qui), se persino lui, che passa essere uno molto rispettoso delle opinioni altrui, ha sentito il bisogno di una piccola chiosa iniziale per prendere le distanze, pare quasi più dallo scempio grammaticale che dalle opinioni invero strampalate.
Che si dovesse pubblicarla, non ci sono dubbi: Celentano, per l’audience, vale comunque il prezzo del biglietto, indipendentemente dai contenuti che esprime.
E in questo – oggi – i giornali non possono andare tanto per il sottile: sull’altare delle copie si può sacrificare senza troppe remore l’eleganza dei contenuti.
L’importante è la presa di distanza. E al Corriere l’hanno fatto con un titolo, L’italiano che precipita, che esprime una sottile perfidia redazionale, dove il precipitare non allude tanto a un decadimento antropologico della specie, quando alla riduzione della lingua a un convulso monologo interiore che rasenta il borbottìo.
Ma perché invece di scrivere (male) e pensare (male) il vecchio Adriano non canta? È questa la domanda che sorge spontanea quando, in debito di ossigeno, il malcapitato lettore arriva all’ultima riga e pensa a tante belle canzoni di un passato in cui il ragazzo della via Gluck non era ancora preda dell’attitudine predicatoria e del moralismo un tanto al chilo.
E poi, perché quest’invettiva, genere letterario che richiede estro e sapienza di scrittura, per mettere alla berlina personaggi che in molti casi sono già la tetra parodia di se stessi e dirci la sua su argomenti come la scuola di Adro e la Fiom, i grillini e la Rai, Berlusconi e Fini?
Da qualche anno, da quando con lui è invecchiata anche la voce e, forse, pure il talento artistico, Celentano ha scelto di perpetuare il proprio personaggio attraverso una critica parossistica, che divide il mondo tra bene e male, buoni e cattivi, lento e rock, in una metamorfosi che gli ha regalato una seconda vita.
Poteva, e per fortuna non l’ha fatto, vivere nell’inesausta replica del come eravamo, simile a molti dei suoi colleghi che cantano all’inverosimile le canzoni che li hanno resi famosi quarant’anni prima, vacuo inno ai migliori (migliori?) anni della nostra vita.
Ma l’aver rifuggito la nostalgia non gli ha purtroppo risparmiato quel patetismo che solo il silenzio avrebbe tenuto lontano.
Tutti avremmo preferito un nuovo repertorio di belle canzoni, affinate dalla sua maturità di artista e di uomo. Invece siamo al grado zero di parole in libertà, al turpiloquio, al vaffa tanto di moda che non ha nulla di liberatorio e molto di senilmente rancoroso.
Eppure Celentano, come artista, non è stato un Pupo, un Albano, un Malgioglio qualunque. E neppure un morto di fama che si dà in pasto alla fabbrica televisiva e che ritrova se stesso solo alzando la voce (che non ha più). Ma doveva finire proprio così?
20/10/2010 – lettera43.it