Il cantante: in Italia non c’è libertà di stampa. L’ex conduttore di «Sciuscià»: «Voglio il mio microfono. Ho fatto un sacco di errori, ma sempre in buona fede»
La prima frecciata è per Fabrizio Del Noce, il bersaglio prediletto di Adriano Celentano, il direttore autosospeso di Raiuno che lo guarda da una camera d’albergo. Immerso in una enorme scenografia cupa, tra cinesi che stirano in mezzo alle macerie all’ombra di una squallida Chinatown e pesanti nuvole che incombono su un gigantesco ponte di Brooklyn, tra rotori di elicotteri e luci stroboscopiche, il Molleggiato canta cosa è lento e cosa è rock. Il male e il bene. «Chi si sospende è lento, ma se lo fa per finta (e il sospetto è questo) è rock», intona. Segue l’elenco: la cicala e la formica, la pietà e la tortura («lentissima»), le tette vere e il silicone, l’odio e il bacio che ovviamente è come un rock. Anche il Papa è rock e pure la Rai, «rock sofferto, ma uno spettacolo così a Mediaset non si potrebbe mai fare».
Il cappottone, il camicione sgargiante, gli stivaletti di pelle chiara, gli occhiali neri. Celentano irrompe sui teleschermi alle 21.09. Appare Gérard Depardieu su un pulpito, improvvisa un siparietto maccheronico senza azzeccare un accento, legge il poeta Kavafis sull’arrivo dei barbari, parla della passione per l’alcol. Un aperitivo che prepara il palato dei telespettatori al piatto forte: il processo alla Rai, l’antiamericanismo, la satira a senso quasi unico.
Foto di Enzo Biagi che spiega perché non sarà da Celentano. Foto di Beppe Grillo, di Daniele Luttazzi con i loro no «finché ci sono quelli là». Sul maxischermo scorre la classifica della libertà di espressione 2005 preparata dalla Freedom House («strano, si chiama Casa della libertà»): l’Italia è settantanovesima, tra Bulgaria e Mongolia. Tre tavolini e sedie vuoti mentre viene proiettato l’«editto di Sofia», il discorso di Silvio Berlusconi del 18 aprile 2002 che chiuse la porta a Biagi, Luttazzi e Santoro. «Da allora tutti hanno paura delle parole», scandisce Celentano in controluce.
Ma Santoro è lì, in studio. Lui è tornato. L’europarlamentare dimissionario avanza tra applausi e urla del pubblico nel suo vestito blu, prende il microfono ma vorrebbe il suo microfono e il suo studio «per essere quello che penso di dover essere».
Il martire epurato sentenzia: «La libertà di espressione, la regola delle regole, è sacra». I sette minuti per i quali Santoro ha lasciato Bruxelles sono stati un comizietto. La sua cacciata, come quella di Biagi e Luttazzi, «è una cosa del passato. Stiamo andando verso un futuro diverso e non riguarda solo una persona», cioè Berlusconi. L’ex simbolo di Raitre allontana Celentano. «Voglio dire una cosa a chi ha lavorato con me: stavolta vado fino in fondo, si preparassero a ritornare. Alle mie figlie: ho fatto un sacco di errori, ma ho sempre agito con onestà e buona fede. Viva la fratellanza, l’eguaglianza, la cultura, la libertà». Ovazione dei 450 presenti, tra cui Moratti e Armani.
Celentano canta «Azzurro», e il comico Antonio Cornacchione gli dice che l’ha fatto «per rimediare». Poi rimedia lui, dicendo che «Biagi torna in tv a fare la Talpa», «l’unica trasmissione che Berlusconi può vedere è Un giorno in pretura» e che lui «non censura nessuno perché vuole essere incensurato». In tre ore di diretta, Cornacchione fa due brevi comparsate, come la splendida Luisa Ranieri (che appare solo alle 23) e Maurizio Crozza: il momento più vivace di Rockpolitik è il suo primo show. Vestito da Gypsy King intona «Zapatero Zapatera», se la prende con Bankitalia («Celentano ha chiamato Santoro che si è dimesso, non poteva chiamare anche Fazio?») e irride le primarie dell’Ulivo vinte dal «Mortadela» che aveva «una speranza sola: la speranza è svanita, è rimasta la sòla». Poi, preceduto dal gruppo no-global dei Negrita, nei panni di George Bush dà voce all’antiamericanismo di Celentano.
Il quale è ormai un ex molleggiato, la musica è pochina, lui si esibisce seduto, la voce a tratti incerta, qualche parola sfugge, qualche playback soccorre. Il monologo di mezz’ora sull’ecologia e il pacifismo è confuso, con le denunce delle brutture architettoniche, gli attacchi ai politici che non costruiscono «le case per poter comunicare» e Albertini che «odia il bello» perché vuole edificare una Milano piena di grattacieli. Botte a chi ha costruito case dove la gente muore, e agli immobiliaristi, «quelle bestie ricche che non puzzano, ma dove passano loro non cresce più l’erba». Stiamo andando verso la rovina, profetizza Celentano. «Tra Prodi e Berlusconi farò il tifo per chi si avvicini a questo sogno, via le brutture e il cemento». Tira le somme Cornacchione: «Hai parlato mezz’ora a tutta Italia, un altro per farlo ha dovuto comprarsi tre tv».
Stefano Filippi
21/10/2005 – Il Giornale