Una sterzata tattica a sinistra dietro l’autocritica sulla canzone anti-capelloni
L’autocritica è arrivata poco prima dell’entrata in scena di Benigni. E forse non tutti l’hanno compresa, anche perché la canzone «Tre passi avanti» risale al 1967 e oggi non è proprio fra le prime a essere ricordata nello smisurato canzoniere di Adriano Celentano. Eppure, lui, il Re degli ignoranti, ha chiesto scusa per il testo scritto allora. Che diceva così: «Tre passi avanti, e crolla il mondo beat, una meteora che fila e se ne va… Guarda che coppia dicono già, visti di spalle chi è la donna non si sa…».
E che già allora—è un po’ una fissazione di Celentano — cominciava in forma di lettera: «Caro Beat mi piaci tanto, sei forte perché oltre alla musica dei bellissimi colori… Però se i ragazzi che non si lavano, quelli che scappano di casa, e altri che si drogano e dimenticano Dio fanno parte del tuo mondo, o cambi nome o presto finirai ». Giovedì sera, Adriano ha detto di aver sbagliato, che non aveva capito che quei ragazzi dai capelli lunghi, gli hippy, indicavano una cosa vera, l’istinto primordiale del bisogno della natura. Quei ribelli, spesso di buona famiglia, ricchi e benestanti, che al proletario della via Gluck all’epoca ispiravano solo sfiducia e sospetto.
E’ raro che un cantante—italiano perdipiù—sconfessi cose scritte e cantate in tempi andati (nemmeno Paolo Pietrangeli, che pure per anni è stato il regista di Costanzo, ha sconfessato «Contessa»). Fra i cantanti ci sono tutt’al più quelli che non hanno più voglia di riproporre i motivi dei loro inizi, come Ivano Fossati che non vuole nemmeno sentir nominare «Jesahel». Ma di un’autocritica vera e propria non si vedono tracce.
L’ABIURA DI PASOLINI — La cosa succede più fra scrittori e intellettuali. L’esempio primo che viene in mente è Pier Paolo Pasolini, che proprio su questo giornale «abiurò» i film della Trilogia della vita (Decameron, Racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte): l’orrendo sviluppo neocapitalistico aveva ucciso ogni vitalità, diceva, gli restava solo da raccontare la morte, al cinema con Salò, in letteratura con «Petrolio».
E invece Celentano l’autocritica l’ha fatta. Perché? Forse per dirci che ha cambiato idea sulle droghe, l’amore libero, l’assenza di Dio, la fine della famiglia? Nemmeno per sogno. Quello che credeva allora, Adriano lo crede ancora adesso. Crede in Dio e Gesù Cristo («Lui»), sostiene l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, ritiene che il Papa — anche questo — sia hard rock, predica il rispetto per una natura incontaminata senza grattacieli, ha comprensione per i gaymanon ammette che si possano sposare (tanto che l’altra sera ha definito Zapatero «lento»). Se giovedì sera ha chiesto scusa ai capelloni di 40 anni fa era soprattutto per dare uno spessore in più al suo ruolo politico di oggi, forse involontario, certo ormai imponente.
NOSTALGIA PRE-INDUSTRIALE — Nostalgico di un passato pre-industriale, nemico della modernità, cattolico da oratorio, si è comunque trovato a essere il più vistoso avversario del sistema politico ed economico che si riassume nella figura di Silvio Berlusconi. Perciò, forse controvoglia o forse no, ha deciso di sfruttare fino in fondo il suo richiamo mediatico per attaccare e contrastare le armate del Cavaliere.
Lui retrogrado è diventato «comunista da una semana » (la definizione è di Crozza). Ma è rimasto ancora fedele alla via Gluck. E a quel miscuglio populista da lezione di catechismo e da casa di ringhiera che lasciava perplessi allora (a chi portava i capelli lunghi nel ’67 «Tre passi avanti» non piacque proprio; del resto molti, e anch’io fra gli altri, non gli hanno mai perdonato di aver stravolto «Stand by Me» in «Pregherò», con versi del tipo: «la fede è il più bel dono che il Signore ci dà») e non convince nemmeno oggi. Solo che oggi risulta la forma più efficace di anti-berlusconismo disponibile. E così dilaga, piace, viene usata. Sincero o no, Celentano usa i mezzi che ha, e lo fa bene. Ha messo in moto un gioco grosso, ha ricevuto attenzione e attacchi, e così lui risponde.
I PAPA-BOYS — Difficile sapere se gli ex capelloni hanno gradito le sue scuse, o se in loro è rimasta ancora un po’ di diffidenza nei confronti del nostro massimo telepredicatore. Il suo pubblico di riferimento parrebbe essere quello dei Papa-boys, a cui raccomanda l’umiltà, ma intanto ha riportato Santoro in tv e l’altra sera ha detto che la guerra in Iraq è una guerra che non si doveva fare. Ma subito ha aggiunto che se lui fosse Bush, comunque, invece di ricostruire grattacieli su Ground Zero avrebbe fatto una piccola casa nella prateria, con i contadini che lavorano la terra. Insomma, da un lato la denuncia politica diciamo così di sinistra, e dall’altro la nostalgia della famiglia patriarcale.
Prima ricordavo Pasolini. L’accostamento non deve sembrare blasfemo (se è vero che «non son solo canzonette », è francamente impressionante tutto lo spazio che la politica italiana sta dedicando al cantante). Ci sono cose che, anche temporalmente, avvicinano Celentano all’ autore degli «Scritti corsari». L’invettiva contro i beat del 1967 precedeva di pochi mesi la poesia contro gli studenti del ’68 di Pasolini. Tutti e due, con i loro mezzi diversi, condannavano i giovani moderni, neocapitalisti, e le loro manifestazioni. Allora, cantante e poeta, furono bollati come reazionari. Oggi vengono letti come profeti.
Ranieri Polese
29/10/2005 – Corriere della Sera