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Celentano sceglie Silvio, Nanni Moretti non ci sta

Forse non tutti l’hanno ancora capito, ma la polemica fra Nanni Moretti e Adriano Celentano sulla figura di Silvio Berlusconi segna uno spartiacque nella agitata storiografia della seconda Repubblica, la fine dell’unità di azione dell’antiberlusconismo, un evento comparabile alla caduta del muro di Berlino. Dice Nanni Moretti sospettoso: «Berlusconi non mi intenerisce, la destra è sempre uguale». Gli ribatte dalle colonne del Corriere della Sera il supermolleggiato Adriano Celentano: «Silvio è cambiato, io ci credo».
C’è in questa polemica tra due numeri uno del mondo dello spettacolo, c’è in questo botta e risposta fra i due ultimi grandi carismatici, tutto il peso simbolico di un passaggio di epoca. La notizia, infatti, non è che non siano d’accordo oggi, ma che lo siano stati fino a ieri. Solo quel sentimento trasversale, ostinato e persistente che è l’ultima ideologia italiana, «l’antiberlusconismo», infatti, poteva tenere insieme, come ha fatto sino ad oggi, due personaggi agli antipodi come Celentano e Moretti.
Moretti è l’espressione più sublimata e raffinata della sinistra intellettuale, è l’uomo che vantava – in «Palombella rossa» – di essere destinato per sempre ad essere «la minoranza di qualcosa». Celentano invece, era stato per il mondo di Moretti il simbolo del disimpegno degli anni Settanta, il nazionalpopolare, lo yuppie-do che per lungo tempo era persino sospettato di simpatie missine, insieme a Lucio Battisti. Quando Celentano aveva iniziato la sua fase «gnomica», i suoi sermoni, la sua trasmutazione repentina da popstar a guru catodico, era stata proprio la sinistra la prima a puntare l’indice contro il suo «facile qualunquismo», il suo «populismo», l’ipersemplificazione dei suoi messaggi. Quante staffilate dalle colonne di La Repubblica, per l’Adriano nazionale, ai tempi di quella lavagna in cui Celentano aveva scritto «La caccia e contro l’amore» (senza accento sulla «è», tanto per far accigliare i custodi della grammatica e del progresso).
Poi, dal 1994 in poi, l’incantesimo e tutto era cambiato, con la nascita di quell’incredibile movimento di contrari che si tenevano sotto le bandiere del no al Cavaliere. Siccome c’era la minaccia di Silvio Berlusconi, tutti quelli che erano contro Silvio Berlusconi si sentivano affratellati. E dunque la cafoneria scanzonatamente conservatrice di Celentano veniva trasfigurata in suggestione pasoliniana, il suo lato pop veniva elevato a divina trasgressione creativa, a dadaismo. Finito di fatto l’antifascismo, l’antiberlusconismo era l’unico cemento che poteva tenere insieme due mondi distanti come quello del regista del Caimano e del difensore delle foche, la torta Sacher e il clan. Era l’antiberlusconismo l’unico collante che poteva far incontrare un autore televisivo raffinato, colto e progressista come Carlo Freccero, un maledettista antisistema come Diego Cugia, e uno che come massima trasgressione elettorale, nella sua vita, aveva votato Democrazia Cristiana.
Adesso – e ancora una volta ha ragione Celentano – è caduto l’ultimo muro. L’operazione culturale operata da Walter Veltroni con la nascita del Pd, sottrae alla sinistra l’ultima certezza identitaria. E se Berlusconi non è più un demone, ridiventa «grande seduttore», anche fra coloro che fino a ieri si facevano il segno della croce al suo apparire. E così anche Celentano può cogliere l’affinità telepredicatoria che di fatto lo accomuna al Cavaliere, la passione per il piccolo schermo come luogo di contatto diretto con il popolo.
Adesso Celentano parla davvero come un sacerdote del politicamente corretto: «Era bello vedere il nuovo modo di Berlusconi – scrive – e il silenzio attento di una sinistra pronta a captare ogni minima innovazione da qualunque parte provenisse». Ed è ovviamente tutto il contrario di Moretti, che rimarca il suo postulato: «Per quindici anni, a mio giudizio, Berlusconi è stato pessimo. Mi sembra difficile, dunque, che cambi qualcosa». Moretti inveisce contro la Lega: «Come può essere credibile un partito razzista e xenofobo che per vent’anni ha parlato come sappiamo?».
Celentano, invece, conferma la sua apertura di credito al centrodestra e al suo leader: «Insomma, gli uomini cambiano, pare. C’è chi di fronte a un successo diventa umile e saggio». Moretti odia la demagogia, Celentano ama la predica, il regista del Caimano difende l’idea della militanza, l’autore di «Siamo la coppia più bella del mondo» è il cultore della non-appartenenza.
Certo, Celentano, alla sua maniera, poi elogia anche «il coraggioso Casini» e già che c’è, dice che non vede male nemmeno «la geniale impennata del cattivo Di Pietro». Ma poi, se fai la tara di tutto, scopri che Moretti resta quello di Aprile – il film che celebrava con il suo titolo la nascita del figlio e la vittoria dell’Ulivo. E che Celentano, invece, ritorna – come è giusto che fosse – l’autore di Azzurro. Che poi, a ben vedere, con quel ritornello lì, molti anni prima della nascita di Forza Italia, è quasi un inno pre-berlusconiano.

di Luca Telese

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19/05/2008 – Il Giornale

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