Dopo tutto, Celentano è andato in onda come ha voluto. Segno che, se uno ci prova, ci può riuscire, perfino a riportare Santoro in Rai. Appena arrivato in scena, ha cantato («se a volte mi estraneo è perché non approvo») e ha spiegato così tutto quello che c’era da spiegare. La gioia di esserci e la noia di aver dovuto attraversare un mare di mediocrità, che, per inciso, è un mare berlusconiano. Poi Adriano ha cominciato a distinguere quello che è lento e quello che è rock. Zeman è rock, Moggi è lento. L’odio è lento, il bacio è come un rock. Lo zoo è lento, la foresta è rock. Il sesso è rock, il sasso è lento.
E il primo passo politico lo fa Gerard Depardieu, con l’annuncio clamoroso: «Oggi arrivano i barbari. Che fa il Senato?». Che alluda alla devolution? Ma no, è una poesia di Kavafis letta effettivamente con una pronuncia barbara. Più corretta la lettura dei messaggi di Biagi, Grillo e Luttazzi, che non hanno potuto partecipare. E infatti ci sono i loro posti vuoti e c’è Santoro che, per esserci, ha dovuto dimettersi da deputato europeo. Ma c’è anche Berlusconi, ripreso nel momento del suo editto bulgaro, che ha fatto collocare l’Italia da «Freedom of the press» al 78° posto, tra Bulgaria e Mongolia nella classifica della libertà di espressione.
«Hanno tutti paura della parole – commenta Celentano – oggi si possono dire soltanto cose che non danno fastidio a nessuno. Ormai si possono dire solo cose che fanno vincere le elezioni». Ed entra Santoro, tra applausi trionfali del pubblico in sala, che deve essere tutto composto da comunisti brianzoli scalmanati. Celentano riconsegna il microfono a Santoro. Per dire finalmente la sua, inneggiando alla fratellanza, alla uguaglianza, alla cultura e alla libertà. «Grazie Adriano, ma io voglio il mio microfono, il mio lavoro: finché non lo avrò non sarò tornato a essere quello che ero». Poi si è rivolto alle figlie («Ho sempre agito con onestà») e ai collaboratori: «Preparatevi a tornare a lavorare».
Ecco le parole scandalose che non si potevano far circolare in anticipo. L’unica cosa che sapevamo, infatti, di «Rockpolitik», era che Adriano avrebbe cantato in apertura la canzone «C’è sempre un motivo». Per il resto, tutto quello che era stato anticipato poteva essere completamente privo di fondamento. A parte la presenza di Maurizio Crozza (con una formidabile versione dei Gipsy King «Zapatero, Zapatera», in cui ha preso in giro tutto il centrosinistra, per poi entrare in scena in gommone stelle e strisce nei panni di Bush), della bellissima Luisa Ranieri e di Antonio Cornacchione in gramaglie per i dolori del povero Silvio (che oggi ne avrà uno in più). Il comico ha consegnato al Molleggiato una tessera onoraria di Forza Italia: «Così puoi avere sconti di pena in tutta Italia…». Adriano, però, ha chiarito che «io non tifo nè per Prodi nè per Berlusconi». Per poi lanciare una stoccata agli immobiliaristi: «Dove passano loro non cresce più l’erba».
Poi, ovviamente Ligabue e Negrita, ma soprattutto Celentano col suo rock e il suo temuto e misterioso monologo. Pause comprese. E battute di ciglia. E gambe che poi tanto molleggiate forse non sono più. Senza per questo rinunciare a dire la sua al solito modo clamoroso e insieme lapalissiano. Adriano odia la guerra, la povertà e la sofferenza, più o meno come tutti. Solo che lui lo dice come se lo scoprisse in quel momento e ne provasse un enorme dolore. Poi sorride e improvvisamente canta. A qualcuno sembra furbo il suo cattolicesimo rurale, a qualcun altro il suo trescare con il potere (e magari con il prepotere), per poi cambiare le carte in tavola e procurarsi nuovi e potenti nemici. Non è furbo: è il solito incredibile Celentano e basta. Che, sulle note di «Ancora vivo» («Non si gioca coi sentimenti, non ho giocato mai») fa scorrere le immagini trash dei reality e di alcuni talk show, da «L’Isola dei famosi» a «La Talpa». Una vera sorpresa, in attesa della messa in onda, è il direttore generale Alfredo Meocci. Sorridente e a suo agio nello studio avveniristico, dice: «È tutto tranquillo. Del resto si può, divertendosi e rilassandoci, dire anche qualcosa di importante…».
L’immensa scenografia i cui costi si favoleggiano, ma non si vogliono certificare, è di Gaetano Castelli che firma anche gli scenari kitsch e floreali di Sanremo. Ma qui ha dimostrato quello che sa fare quando segue le indicazioni di un artista e di autori (Freccero, Cerami, Cugia, Caverzan e Scrosati) che sanno quello che vogliono. E lo ottengono.
di Maria Novella Oppo
21/10/2005 – L’Unità