Dove va l’architettura contemporanea? È davvero senza guida? Prima di preoccuparci di questo, dovremmo reimpostare i termini della dialettica fra passato e presente, conservazione e innovazione. E rifondare l’autonomia del giudizio estetico. Solo dopo potremo giudicare se Celentano, nella sua filippica contro gli architetti, aveva (un filo di) ragione…
Ci ha pensato Adriano Celentano a gettare finalmente il sasso nello stagno di un dibattito culturale strisciante, troppo spesso pregiudiziale e ideologico: quello sull’architettura contemporanea. È bastato poco, quindi, per scatenare o, meglio, per portare alla luce il flusso delle polemiche su quale debba essere la mission dell’architettura e sui nuovi canoni del bello, a cavallo fra urbanistica, arte e politica. C’è da scommettere che in breve tempo l’intera questione sarà nuovamente inghiottita nel lavandino (otturato, quello di Celentano e di tutti noi). Ma il momento è propizio per cercare il confronto su un tema tabù, il rapporto fra antico e moderno, passato e futuro.
L’Italia, per sua stessa natura, è destinata a vivere la crisi, la mutazione dello stile architettonico, più come conflitto che come dialogo: il passatismo, che non significa necessariamente atteggiamento di chiusura nei confronti del moderno, è comunque l’abito mentale più comodo, spontaneo e perfino redditizio. La conservazione del patrimonio artistico rischia di diventare troppo facile argomento contro l’innovazione e lo sviluppo di nuovi linguaggi comunicativi. Non vale solo per l’architettura, ma per il mondo dell’arte in generale, che non vede più la presenza di importanti protagonisti italiani, né sul lato della produzione né della promozione.
Tuttavia, l’architettura è la disciplina più invasiva nei confronti della vita quotidiana, e quindi avversata più o meno apertamente. Purtroppo, nel dibattito si riscontra l’attestazione su punti di vista ideologici, che intendono il modernismo da una parte e la riscoperta e conservazione del passato dall’altra come categorie monolitiche, da accogliere o rifiutare in toto. Chi non gradisce lo sperimentalismo tipico della nuova architettura non attacca su questo fronte, quasi avesse paura di addentrarsi in una discussione sull’estetica: si arrocca sulla difesa dell’esistente, sulla contaminazione velenosa di qualsiasi innesto moderno, infestante di per sé. Chi invece -quasi sempre gli stessi architetti e comunque gli addetti ai lavori- si pone a favore della ricerca di nuove sintesi e nuovi linguaggi, all’insegna di parole d’ordine come innovazione, futuro, competizione (e facilmente si sfocia nell’economia e nella politica), lo fa in virtù di un’incondizionata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive�, guidato da un neo-positivismo applicato all’arte o da un inconscio desiderio futurista di staccare con il passato.
Un dibattito in questi termini è parziale e non aiuta la maturazione delle posizioni né degli uni né degli altri. Se si parte dai casi concreti e si analizza la tendenza univoca dell’architettura contemporanea, soprattutto nell’ultimo decennio, si potrà facilmente individuare l’abitudine a trattare l’opera nella sua singolarità , rivestendola di un autonomo valore artistico dato dall’idea, dall’immagine. È quello che si potrebbe chiamare l’archiscultura, in quanto l’opera scultorea vive da sola e non ha bisogno di contestualizzazione. In tal modo, un grattacielo (o anche un museo o un auditorium come quello di Roma) è bello per la sua forma, e poco importa di come si impone sullo skyline di una città . Per questo le metropoli asiatiche sono una giungla di palazzi imponenti e dissociati, eccentrici e spaventosi, mentre New York, prodotto felice di una stratificazione di stili sin da metà dell’Ottocento, è il miglior esempio di modernità funzionale e corale, in cui l’effetto d’insieme, il disegno complessivo superano la dignità della singola opera.
Certo, anche l’ultima architettura contemporanea può essere pensata organicamente, come pare accada nella zona est di Londra fino ai docks, cioè in progetti che mirano a cambiare un intero profilo di città , non un punto. Tuttavia, oggi è più difficile, anche perché le città si espandono a partire dalle periferie e le zone decentrate si prestano meglio alla funzione museale di destinazione asettica dell’opera; e in Italia è ancor più difficile, per le ragioni già espresse.
Quando Vittorio Sgarbi parla della “vanità del modernismo architettonico�, intende probabilmente la tendenza al protagonismo dell’architetto, che sempre più si sente un artista (anzi, un archistar, architetto artista star) e quindi sempre più autorizzato a stupire. L’opera è spesso il parto estemporaneo di un’idea, punto. Bellissimi palazzi possono innestarsi male nel tessuto urbanistico, e la nuova sede della Bocconi, nel mirino di Celentano, pare non essere neppure un bel palazzo. Insomma, bisogna recuperare autonomia di giudizio estetico e valutare empiricamente le opere architettoniche, per come sono e soprattutto come si pongono nell’ambiente circostante, che non è una riserva naturalistica.
Niente di pregiudiziale contro l’architettura contemporanea, quindi, ma neppure si può dire che l’Italia abbia paura di innovare solo perché giudica “brutto� il nuovo grattacielo di Renzo Piano a Torino (la categoria degli architetti è infatti compatta nello sponsorizzare la sua funzione di impulso alla modernità indipendentemente dai progetti). Se il dibattito partirà da queste (nuove) semplici premesse, forse sarà più utile per tutti. E non dovremo più aspettare che Celentano ci suoni la sveglia.
06/12/2007 – Exibart.com