Erano meglio le pause
di Roberto Fedi
In questo Bel Paese il Dalhai Lama non può parlare, ma Celentano sì; e in entrambi i casi non se ne capisce il motivo. È l’unica riflessione (ma riflettere su Celentano è come bere dell’acqua calda) che ci viene spontanea dopo aver acceso ahimè il televisore su Rai Uno lunedì 26 novembre, prima serata.
Ci eravamo sempre rifiutati di scrivere su Celentano, perché abbiamo una dignità e perché anche la pazienza ha un limite (anzi: ogni limite ha una pazienza, come diceva Totò). Qualcuno ci accusava di essere snob, che comunque secondo noi è un bel complimento. Allora abbiamo acceso la televisione.
La trasmissione, se così si potesse chiamare una cosa informe e improvvisata, sgangherata e monomaniacale, non ci ha neanche fatto arrabbiare. Oppure sì, ma solo perché abbiamo pensato a quanto sarà costato agli italiani quel triste caravanserraglio messo insieme dal suddetto Celentano per promuovere a spese della Rai il suo ultimo cd (faceva anche il regista: si vedeva), e dal Ballandi, ormai una specie di must, si immagina carissimo, su Rai Uno. Ci ha fatto venire un sonno che, per svegliarci, a un certo punto – era passata meno di un’ora ma sembrava che fosse già il giorno dopo – siamo transitati con un sospiro di sollievo a Paperissima sprint, sul Cinque, che è un insieme di sciocchezze ma che almeno non presume di farci la predica.
L’ex Molleggiato, ora veramente piuttosto Statico, ha chiacchierato con alcuni amiconi per decine di minuti sul nulla (fra questi Mogol, che ormai parla come se fosse un Nobel della letteratura o un guru del pensiero occidentale: si stenta a credere che abbia collaborato con Lucio Battisti in alcuni dei capolavori della musica leggera del Novecento). Non faceva neanche ridere, e onestamente assomigliava piuttosto a una presa per i fondelli. Poi si è messo a cantare: primissimo piano, una canzone più brutta dell’altra.
A un certo punto, durante la chiacchierata da bar di periferia (ma profonda: la periferia, vogliamo dire), con un’entrata in scena che forse voleva essere pirandelliana, tipo Sei personaggi, e che invece era da filodrammatica di paese, ecco che alle spalle si materializza Fabio Fazio. Che interpreta la parte, che forse voleva essere autoironica e invece era patetica, che gli riesce meglio: quella del giornalista che fa le interviste in ginocchio. Segue dialogo da barbiere d’un tempo sul nulla: il Filosofo se la prende col nucleare (che in Italia non c’è: qualcuno avrebbe dovuto dirglielo, che diamine), dice banalità sui politici, fa un piccolo spot a favore di Prodi (è bravo, ma gli italiani non lo capiscono: che è una battuta da Benigni in forma, ma il Pensoso la diceva sul serio), ricanta, si ferma, parlucchia, canta. Intorno un po’ di gente, un’orchestrina, minimalismo miliardario.
È stato qui che siamo passati a Paperissima. Abbiamo visto, però, in quell’oretta scarsa una sineddoche (la parte per il tutto) del Bel Paese e della Rai, che ne è la metafora. Il nulla, riempito di gente senza qualità, di boria e di banalità senza senso, ma costosissimo. Era meglio quando il Filosofo Morale faceva le pause, almeno uno nella pausa poteva fare una telefonata, bersi un caffè per tenersi su, e magari meglio ancora andare in bagno.
Ah già: il titolo. Che era La situazione di mia sorella non è buona. E che vuol dire? si interrogavano angosciati i giornalisti alla vigilia, come se stessero parlando della Critica della ragion pura. Uno ha intervistato il Maestro delle Genti, che ha dato l’interpretazione autentica, come suol dirsi (a questo siamo arrivati). È come san Francesco, ha detto pensoso, che parlava della natura e quindi della Terra chiamandola sorella. Noi, senza pensarci troppo, a nostra volta chiariamo invece che:
a) Si vede che non gliel’hanno spiegato, ma san Francesco ovviamente chiama la Terra «matre» (Laudes creaturarum, v. 20): «sorella», anzi «sora», sono la «Luna e le stelle» (ivi, v. 10) e l’«Aqua» (v. 15);
b) Evidentemente il Maestro ora si crede san Francesco.
Questa seconda ipotesi, indubbiamente più allarmante, spiega però molte cose, a nostro immodesto parere.
02/12/2007 – Drammaturgia.it