I commenti di Roberto Saviano e Massimo Gramellini sulla querelle tra Teocoli e Celentano
Da giorni si parla della “lite” tra Teo Teocoli e Adriano Celentano, a causa di numerose dichiarazioni fatte dal primo in cui lamenta di non riuscire più a sentire Adriano da quattro anni, dalla mancata collaborazione per Adrian.
Celentano, qualche giorno fa, ha risposto attraverso la sua pagina Instagram al suo “ex” amico, dicendo che “io non ti rispondo perché ti voglio bene. Continua pure a chiamarmi e io non ti risponderò”, non entrando di fatto, nel merito delle accuse rivoltegli da Teocoli, ma glissando simpaticamente a suo modo.
Per chi non avesse seguito, riportiamo due link dove potete leggere i botta e risposta:
Teocoli-Celentano, nuovo botta e risposta: cosa è successo
La Vita in diretta. Teocoli-Celentano, botta e risposta sui social
Ebbene, in questi giorni si sono espressi due volti noti della tv, nonché scrittori, esprimendo due idee leggermente contrapposte sulla vicenda, facendone un’analisi antropologica, diciamo così: si tratta di Roberto Saviano e Massimo Gramellini.
Vi riportiamo di seguito, il loro pensiero
Non ti rispondo per affetto: perché capisco le parole di Celentano a Teocoli
di Roberto SavianoTeo Teocoli, artista al quale mi sento affettivamente legato dai tempi di Felice Caccamo, in un’intervista ha dichiarato che da anni prova a chiamare Adriano Celentano, senza ottenere risposta. Teocoli si è detto molto dispiaciuto e anche deluso per questa assenza di risposta. La replica di Adriano Celentano è arrivata ed è stata controintuitiva. «Teo, – ha detto – io non ti rispondo perché ti voglio bene. Continua pure a chiamarmi, e io non ti risponderò».
Trovo queste parole una dichiarazione di lealtà e cura. Il telefono rende ciascuno raggiungibile al punto che, il non rispondere si fa foriero di interpretazioni funeste. «Mi ignori», «Ti ho fatto qualcosa che non immagino», «Non sono alla tua altezza», «Selezioni a chi rispondere e io ne sono escluso o esclusa». Prima della diffusione capillare dei telefoni mobili, questo veleno era assente dalle nostre esistenze. Ce n’era dell’altro, di veleno, ma questo no. Per poter rispondere, bisognava essere in casa, in ufficio o comunque era necessario avere un telefono fisso a portata di mano. La non risposta non era foriera di funeste ermeneutiche.
Oggi tutto è cambiato e, avendo accesso a una connessione perenne, ci siamo trasformati da agenti in agiti. Cercati anche quando avvertiamo un’esigenza di solitudine. Anche quando non abbiamo forze per dissimulare la voce rotta dal dolore. Da quando sono finito sotto scorta, ho sperimentato su di me molte volte questa pratica d’assenza e di distanza.
Mi sono chiesto per anni chi si sentirà sicuro accanto a me? Chi sopporterà di vedermi solo tra quattro mura e circondato da carabinieri? Ho smesso così di sentire le persone cui ero più legato per timore di farle stare male, di far vivere anche a loro il mio disagio; di chiamare e rispondere agli amici più stretti – e finanche a persone di famiglia – perché stavo male, talmente male da non volerli coinvolgere in quel casino che era diventata la mia vita. Nemmeno mi sentivo capace di spiegar loro come era diventata la mia vita. E stavo talmente male da avere la certezza che nessuno avrebbe potuto fare nulla per me, per sistemare le cose, per togliermi da quella gabbia.
Questa distanza e questo silenzio ha portato molti ad allontanarsi da me. Non biasimo nessuno, ma rifletto: da troppo tempo ormai non siamo più in grado di ragionare sulla assenza, sulla sottrazione, sulla non-risposta. La non-risposta di un figlio a un messaggio o a una telefonata è sinonimo di disastro. La non-risposta di una fidanzata è sospetto di tradimento. La non-risposta è gravida di negatività. Ma può anche invece essere uno spazio di possibilità. Mi sto divertendo, sto facendo altro, voglio stare da solo, voglio proteggerti dalle mie notizie, sto male e non riesco a condividerlo, voglio interrompere senza che questo sia motivato da un conflitto.
La non risposta come forma controintuitiva di protezione o di libertà. Insomma, a chi si vuol bene, non si risponde al telefono. E questa prassi drammatica, che non ha nessuna forma di galateo, che non rispetta etichette, che ha devastato letteralmente le nostre vite, trova nella domanda di Teocoli e nella risposta di Celentano finalmente una interpretazione nuova. Si può scegliere di proteggere un amico dal dolore proprio non condividendolo, di avere il diritto di voler sopportare solo la compagnia di se stesso, e a volte nemmeno quella. Non chiedere soccorso, non voler condividere, sparire, non è fatto in molti casi contro qualcuno, anzi spesso è fatto a protezione di qualcuno. Al contrario, con chi ci ha deluso o tradito o ferito, talvolta non si vuole argomentare o risolvere le cose: si sospende, si interrompe. Basta.
Io credo che abbiamo totalmente disimparato a comprendere il significato che ha la distanza, anzi, abbiamo del tutto eliminato ogni possibilità di distanza, tanto che sparire è percepito quasi come un atto violento. E, invece, probabilmente, per mantenere vivo il buono che c’è stato in una relazione, silenzio e distanza sono necessari perché capaci di lasciare al fondo, nella posa, il dolore e l’errore, la marcescenza del rapporto.
Quindi Celentano – non sappiamo quali siano i motivi per cui non risponde a Teocoli – ha proclamato una verità: «Non rispondo perché ti voglio bene». Ha rivendicato, Celentano, il dono del silenzio, la bellezza dell’interruzione, lasciare tutto così com’è, permettere al setaccio di tenere in ricordo i momenti belli, separare quelli orrendi e non pretendere che tutto debba essere sempre identico.
Ho verso il «subito» e il «per sempre» uguale diffidenza. Le amicizie e gli amori istantanei, come le amicizie e gli amori eterni presuppongono una trasformazione e una violazione di sé radicale; nella rapidità, l’irrompere dell’altro che invade e sovverte ogni cosa non può che bruciare. Dall’altra parte, le relazioni e le amicizie eterne pretendono una costante immobilità e un costante tentativo di accomodamento che sabotano la naturale trasformazione di sé. È mia convinzione che, nella vita, nulla possa realmente durare e che ci angosciamo per questa terribile condizione umana. L’amore termina e diciamo che si trasforma in qualcosa di migliore. L’amicizia si esaurisce e, per commercio abitudinario, vogliamo credere che si possa avere una costanza fatta di consuetudine. Le cose in realtà finiscono, il che non significa che ciò che è stato vissuto è falso, o caduco, o illusorio.
In questa risposta di Celentano ci ho visto un’incredibile saggezza. «Continua a chiamarmi», che è un modo per dire «sono felice che tu possa pensarmi». Io continuerò a non risponderti, cioè io continuerò a decidere di mantenere il mio confine, e non c’è niente di male in questo. Non rispondere al telefono, sparire senza dover dare una motivazione è già una scelta e quindi una ragione. «Non ti rispondo perché ti voglio bene».
10/10/2024 – Corriere della sera.it
Perdere un amico
di Massimo Gramellini«Non ti rispondo più al telefono perché ti voglio bene». La spiegazione di Celentano all’(ex?) amico Teocoli ha spiazzato e incuriosito, perché tutti abbiamo un amico della vita che non sentiamo da una vita e chissà come reagiremmo se il suo nome comparisse all’improvviso sul display del cellulare.
Roberto Saviano si è messo nei panni di Celentano, analizzando le ragioni che ci spingono a lasciar appassire certe amicizie, non necessariamente per egoismo, rancore o maleducazione, ma, ad esempio, per tutelare l’altro dalle nostre paturnie. Io proverò invece a mettermi nei panni di Teocoli: l’amico rifiutato che non si rassegna, esattamente come un genitore non si rassegna a vedere il figlio-bambino, che lo considerava un dio, trasformarsi in un adolescente che lo ignora.
Siamo sinceri: anche se Saviano mi ha spiegato benissimo che l’amico ha smesso di rispondermi per motivi che non c’entrano nulla con me — e che nel suo sfuggirmi non c’è malanimo nei miei confronti, anzi quasi un senso di protezione — nondimeno io continuerò a starci male. Perché quel che mi manca non è lui, ma il sentirmi riconosciuto da lui.
Veniamo al mondo con due bisogni, l’accettazione e il riconoscimento, e passiamo la vita a cercare persone e situazioni che li soddisfino. Se un amico, anche a fin di bene, dimostra di poter fare a meno di noi, sprofondiamo nell’insicurezza.
Jung diceva che bisogna imparare ad accettarsi e a riconoscersi da soli. Ma lui era Jung. Noi Teocoli, e si fa quel che si può.
12/10/2024 – Corriere della sera.it