Il santone perso in via Gluck
Uno guarda Rockpolitik e magari dovrebbe sforzarsi di scriverci un commento cosiddetto in punta di penna, dovrebbe sforzarsi cioè di eliminare ogni traccia di becera violenza da quelle parole che secondo Adriano Celentano peraltro non ci sono più, perché da qualche tempo, ha spiegato, abbiamo paura delle parole: e ha ragione, perché da ieri sera non ne abbiamo più. Resta soltanto da guardare. Prima un dialogo da età della pietra tra Celentano e Gérard Depardieu (nessuno dei due sapeva l’italiano) che era la definitiva sconfitta del creazionismo, la dimostrazione finale della nostra discendenza dai lemuri; poi atmosfere da monastero buddista e lentezze da film bulgaro (altro che editto) dai cui fumi ecco trasfigurarsi classifiche sulla libertà di stampa nel mondo (che ci vedono dopo la Bolivia e dopo la Mongolia, ma che nessuno spiega con quali criteri vengono compilate) e poi ancora elenchi e fotografie genere desaparecidos argentini: Biagi Enzo, Luttazzi Daniele… sinché poi, oddio eccolo, è lui, il Telemartire. Si avvicina. Forse ci toccherà.
Oddio sta parlando: dice che Biagi è il giornalista «più amato dagli italiani», dice che Luttazzi «è insostituibile», poi finalmente tocca a lui, dice che rivuole il suo microfono, rivuole il suo posto di lavoro e la sua identità perduta, e dio che bello, che scena, viva la libertà, la fratellanza, viva la cultura.
Ecco che il reintegro nella professione di anchorman televisivo viene commentato come se si trattasse del reintegro di un operaio della Breda, ecco gli effetti psicologici che l’astinenza da video può determinare in un soggetto peraltro propenso a uno stile di conduzione inopinatamente populistica, versato perciò a credere che una moltitudine di persone agogni un suo ritorno in video quale diritto inalienabile, ecco il complicato caso di un signore che va a fare l’europarlamentare a Strasburgo con il solo obiettivo di poter tornare in Viale Mazzini a svolgere un presunto servizio pubblico, Santoro zitto quando serve, Santoro pensoso e annuente quando andò a Mediaset a mostrare come potesse piegarsi per non spezzarsi, Santoro l’insopportabile, un personaggio che ha stufato nel senso più banale perché fa perdere un sacco di tempo a tutti, più che altro.
Perché ormai è Santoro, definitivamente Santoro, caricatura del suo volto, figura inappellabile e passata in giudicato, marchio definitivo su quanto si possa dire o fare in un programma che porti la sua firma, grida di dolore ed estenuante lagnanza. Grazie Santoro, e soprattutto grazie Adriano, grazie manieristico menestrello che dopo qualche anno magicamente ridiscendi da noi e rimetti tutto a posto in cambio di vile pecunia: oplà, rieccovi la libertà di stampa, nella prossima puntata se c’è tempo fermiamo la guerra: intanto vi canto Azzurro perché siete fantastici, e sono fantastici anche i dirigenti Rai che sborsano qualche miliardo per farsi sfottere in diretta.
Vogliamo ricominciare da capo? Il neo premier Silvio Berlusconi, in una maniera ritenuta poco elegante e politicamente poco accorta, nel 2001 ebbe a esprimere un forte sgradimento per tre conduttori televisivi della Rai. Le successive decisioni dell’azienda, i cui vertici erano ovviamente un’emanazione del nuovo governo, resero perciò densa di suggestioni la piena legittimità di rinunciare a tre conduzioni peraltro sgradite a tanta parte del pubblico. Il primo caso, quello di un comico non eccezionale, ha scarsa valenza. Il secondo caso riguarda un ultraottantenne collaboratore della Rai, schieratosi contro il neo premier quand’era capo dell’opposizione, che andava in onda da 41 anni e che faceva un programma di 6 minuti di trascurabile significato giornalistico: rifiutò uno spostamento di palinsesto e patteggiò una fuoriuscita assai onorevole. Il terzo caso è quello di un dipendente Rai più giovane, pure lui schierato politicamente, che andava in onda in prima serata dal 1988 e che pretendeva di continuare a farlo ritenendolo un diritto sindacale.
Nuove conduzioni promosse dall’azienda si rivelarono non sempre felici e ciò complicò le cose.
Ora mi riesce difficile spiegare come il dipendente Rai, quello più giovane, sia poi divenuto europarlamentare ma abbia deciso di dimettersi per partecipare a una trasmissione di Adriano Celentano, un cantante di 67 anni che decise di invitarlo per guadagnarne in pubblicità e in ascolti. L’ha fatto ieri, e abbiamo visto i risultati. Non c’è altro.
Tranne un comico dissacrante e trasgressivo che a metà puntata regala a Celentano una tessera di Forza Italia: spiega che dà diritto a uno sconto di pena del 20 per cento. Applausi, risate in sala, il comico gongolante: attende fiducioso epurazioni o censure, unico requisito che ormai rimane per far carriera in televisione. Grazie Adriano. Canzonette e sipario.
Filippo Facci
21/10/2005 – Il Giornale