Eddai, diciamolo che non è stato poi così male, ieri sera su Canale 5 il “Rock economy” di Adriano Celentano, in diretta dall’Arena di Verona con il contorno di grande orchestra sul palco e tutto lo scars system italiano appollaiato in prima fila ad applaudire -dai coniugi D’Alessio a quelli Bonolis, fino al cappellino visierato di Eros Ramazzotti e il panama di don Al Bano Carrisi-.
Sarebbe troppo facile, ora, crocifiggere Nonno Molleggio, accusandolo di avere fatto a pezzi i telepenitenti con le sue sterminate parole contro i Grandi Mali del Mondo, tanto pesanti e spente da rendere simpatici anche l’inquinamento e gli abusi edilizi.
No, sul serio: il Celentano di ieri sera, davanti alle telecamere del piduista ma sempre generoso Silvio, ha comunicato al pubblico un messaggio che merita di essere rispettato, perché chiarisce senza ipocrisie qual è la sua attuale condizione artistica.
Ora, finalmente, tutti hanno potuto vedere e capire ciò che Claudia Mori sa da chissà quanti anni, ma che per amor di bottega ha con saggezza taciuto:
ossia che Celentano, a questo punto, non ha più nulla da dire e tantomeno predicare, in televisione, neanche potendosi preparare con mesi d’anticipo.
Certo la sua guerra (dei bottoni) resta sempre la stessa, in teoria, incentrata sul ragazzo della via Gluck che a settant’anni più che suonati combatte ancora per la tutela delle foreste d’oltreoceano e i diritti umani del cuculo di Abbiategrasso, oltre che per il fango di miseria che ha colpito negli anni la popolazione italiana.
Ma tutto questo, ormai, ha il sapore di “Truman show” almeno quanto Banderas nello spot che lo ha fatto mugnaio.
Bollito non più misto ma integrale, insomma, il favoloso folle di “Yuppi Du” stenta a dir poco in diretta quando straparla di malefatte e malfattori.
E infatti ieri sera è riuscito a farsi fischi(ett)are dal pubblico dell’Arena, chiacchierando per eterni minuti con il teorico francese della decrescita delle disuguaglianze Jean-Paul Fitoussi:
quello, per intendersi, che considera una grand merd la ricchezza fine a se stessa, e invita i capitalisti miopi in blocco ad andare affanculò.
Al che uno a caso, tra i telesopravvissuti di “Rock economy”, potrebbe alzarsi e dire: «Beh, allora vedi che anche tu pensi che sia un sinonimo di suicidio assistito, la celentanata di ieri sera, e inviti donne e bambini a evitare ulteriori angherie?”.
Invece no.
Perché sospinto dalla consapevolezza del proprio fine corsa, e del rigor show che provocano le sue ciacole assieme a Fitoussi, Gian Antonio Stella e quell’altro di cui il signor Adriano non ricordava il nome (per la cronaca: il valente Sergio Rizzo), Celentano ha giocato in parallelo l’arma più subdola e geniale che avesse a disposizione:
ha sfruttato, cioè, i suoi vecchi e nuovi successi, per intessere il Grande Sermone con le loro liriche, combinando le dolcezze di una voce eterna (un po’ stonata, a volte? E chi se ne importa) con l’effetto psichedelico di concetti e moniti altrimenti insopportabili.
Un combinato disposto capace di non smontare l’euforia dei canzonettari puri, ma anche di mungere l’apprezzamento snob di chi s’inchina a testi a volte postatomici come «si è spento il sole e chi l’ha spento sei tu», a volte metacristiani come «mi ricordo che un giorno, in mezzo a noi, venne un tipo che ogni cosa pensava giusto, e la fonte della vita era in lui», o a volte ancora strettamente apocalittici tipo «affamati come il mondo, viviamo in crudeltà, e tutto sembra perso, in questa oscurità».
Tanta roba, direbbe il più trucido degli intellettuali su piazza.
Anche se, in fondo, il vero trionfo è arrivato ieri sera quando, liberatosi dal moscerino Gianni Morandi, Celentano ha cantato come ai tempi d’oro “Prisencolinensinainciusol”:
canzone, è vero, con un testo fatto di frasi vuote. Ma appunto per questo capace di anticipare, già negli Settanta, il nulla che ora ci ritroviamo dentro.
09/10/2012 – L’Espresso