Sembrano lontani in quasi tutto. Invece li separa solo qualche anno di età e sono amici da trent’anni, da quando condividono la passione per l’altopiano di Asiago dove s’incontrano in mezzo alla passione comune: la natura. E, sarà una boutade o un messaggio lanciato agli addetti ai lavori, magari gireranno un film insieme. Ermanno Olmi ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera di questa 65ma edizione della Mostra da Adriano Celentano. Un patriarca del nostro cinema, che ha disegnato pagine delicate, garbate e salde nei principi, in ossequioso ricordo della propria cultura contadina, omaggiato dall’eterno ragazzo rock’n’roll.
La prima apparizione del regista al Lido risale a mezzo secolo fa, con alcuni dei suoi primi documentari realizzati nel ’58 per la Sezione Cinema dell’Edison Volta, Venezia città moderna e Tre fili fino a Milano, e l’anno seguente con l’esordio nel lungo, Il tempo si è fermato. Nel ’61 Il posto ha vinto il Premio della Critica, nell’87 Lunga vita alla signora si è aggiudicato il Leone d’Argento e l’anno successivo La leggenda del santo bevitore ha ottenuto il Leone d’Oro e il Premio Fipresci.
Naturalmente la consegna non è stata formale. Celentano ha sparigliato l’etichetta, in mezzo al direttore Marco Muller e il presidente della Biennale Baratta, producendosi in uno show che Olmi ha apprezzato, spaesato ma molto divertito.
Pochi istanti prima è arrivato il messaggio del presidente della Repubblica Napolitano, che considera questo premio al maestro come uno sprone “perché continui a raccontare vicende e suggestioni del nostro tempo”. Era stato lo stesso regista l’anno scorso, alla presentazione del suo ultimo film (100chiodi) a spiegare che quello era il suo congedo dal cinema. Sarebbe tornato al documentario, come aveva fatto agli inizi con i corti Edison, opere che mostravano l’Italia del boom e del cambiamento epocale.
Invece Celentano è riuscito a fargli promettere almeno di ripensare alla scelta del ritiro. Dopo aver ringraziato l’amico per averlo scelto come premiatore, inizia a parlare. Poi si ferma, chiede due sedie. Olmi già capisce che finirà in un piccolo siparietto e si scusa: “Sono in ansia per quello che può succedere”. Inizia il cantante: “Il premio alla carriera si da a chi non ha più niente da dire. Praticamente uno viene licenziato. Non mi pare il tuo caso”. Olmi annuisce, è chiaro che è un discorso che i due fanno da tempo. E infatti l’autore bergamasco risponde che insieme potrebbero fare “quella marachella di cui parlano da tempo”. Forse, visto che ne aveva accennato come un desiderio lo stesso Celentano il giorno prima, un film sulla resurrezione di Gesù. Dalla descrizione della prima scena non si capisce: “Vedo un orizzonte di mare e la spiaggia”.
Finisce con il premiatore ostinato “il premio non te lo do” e il premiato che ride di gusto, imbarazzato: “Mi hai messo in questa empasse, adesso mi cacci fuori”. Allora i due si prendono a braccetto, percorrono il corridoio della sala Grande accompagnato da un lunghissimo applauso, un abbraccio corale della platea con Claudia Mori, i ragazzi della sua scuola “Ipotesi cinema” e tutti quelli arrivati per festeggiarlo. Il grande vecchio saggio del nostro cinema si va a sedere in fondo, accanto a Celentano, per guardare il suo film d’esordio.
Questo grande artista, che ha cantato gli uomini e la natura come pochi, basti pensare al Segreto del bosco vecchio, al meraviglioso affresco di guerre antiche con Il mestiere delle armi, a L’albero degli zoccoli, film “in lingua” immerso nell’humus dei suoi luoghi d’infanzia che conquistò una storica Palma d’oro nel ’78, questo galantuomo di un’industria culturale che ci vide ai vertici della cinematografia, questo affabulatore che conquista con la sua saggezza, ha bisogno di un riposo. Meritato. Ma poi speriamo che riparta alla rincorsa dei quasi centenari colleghi Manoel De Oliveria e Mario Monicelli. Che qui alla Mostra quest’anno hanno portato lavori inediti. E non hanno ancora intenzione di smettere.
05/09/2008 – L’Unità