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«Milano è brutta per il cemento, la colpa non è di Pisapia»

Il cantante ricorda i suoi primi passi in una città tra le più belle d’Europa
Celentano: i negozianti vogliono le auto? Pensano solo ai loro affari

Franco Cerri, Adriano Celentano e Dario Fo (Angela Quattrone /Emblema)

di ADRIANO CELENTANO

Non avevo nessuna intenzione di attaccare Pisapia, mi piace come si sta muovendo. Assediato dai fotografi, qualcuno tra la folla mi ha chiesto: «È cambiata Milano?». E io ho soltanto detto NO. Perché per me il cambiamento consiste nell’ABBATTERE le brutture di Milano operate dagli spietati killer palazzinari. Per cui nessun ripensamento su Pisapia, continuo quindi a confidare in lui e nel valido Stefano Boeri.

Li considero due pilastri importanti per il vero cambiamento di una città che era una delle più belle d’Europa e che, purtroppo, è stata orrendamente SFREGIATA. E, a questo proposito, vorrei dire a quei commercianti che si sono lamentati contro la geniale idea di aver creato l’area C, che non si va da nessuna parte se si continua a pensare meschinamente solo ai propri affari. Di certo questi sono degli stranieri dai quali non sprizza nulla di quella generosità che è tipica dei veri milanesi. Quei milanesi dall’animo giocoso, figli di Leonardo, addestrati a giocare con la bellezza dell’ARTE e della cultura. Quella bellezza che ieri ho visto brillare negli occhi di quei cari amici che, grazie alla magica bacchetta di Dario Fo, ho potuto ritrovare dopo tanti anni, come Enzo Jannacci, Enrico Intra e Franco Cerri. Combattenti della prima ora quando il rock, come un fulmine a ciel sereno, ci pioveva addosso come grandine liberatrice.

I fulcri di questa rivoluzione erano il Santa Tecla, la Taverna Messicana e l’Arethusa, habitué dei grandi jazzisti come Glauco Masetti, Intra, Basso, Valdambrini, Giulio Libano, Pezzotta, Volonté, Cazzola e Gil Cuppini che animavano le notti milanesi. Ma altre band si davano il cambio al Santa Tecla come i Rocky Mountains e l’Original Jazz Lambro. Era il 1956 quando scendevo i gradini di quella lunga scala che portava nel sotterraneo di quel Tecla che era considerato il centro della diversità. Allora facevo l’orologiaio. Un tale con una cicatrice sulla faccia, che tuttavia anziché guastare rinforzava la bellezza del suo viso, dopo avermi sentito cantare, profetizzò con tono autoritario: «Tempo due anni e tu sfonderai, per questo vorrei che domani sera venissi in un locale dove tu non puoi mancare».

La sua fermezza quasi mi intimorì e al tempo stesso mi incuriosì a tal punto che accettai l’invito. Lo chiamavano il locale degli esistenzialisti dove, appena scesi gli ultimi gradini, subito ti sentivi avvolto dalla gioiosa tetraggine di quello strano ritrovo in cui gli affreschi che penzolavano dal nero soffitto non erano altro che veri e propri water e bidè, dove qua e là, sullo sfondo nero delle pareti, troneggiava, illuminato da una flebile luce, un mazzo di fiori dove il vaso che li conteneva non era che un semplice ma elegante bianco orinale. L’uomo con la cicatrice si avvicinò al chitarrista Bruno De Filippi. Un grande, non solo con la chitarra ma anche con l’armonica a bocca. Vidi che gli bisbigliò qualcosa all’orecchio mentre indicava l’orologiaio in attesa della sentenza. Dalla fugace occhiata che mi gettò De Filippi, ebbi l’impressione di chi pazientemente aderiva alla richiesta di un cliente.

Mi fece segno di salire sul palco. «In che tonalità la canti?», mi chiese. «In la maggiore», gli risposi. Poiché, per una strana coincidenza che racconterò nel prossimo articolo, ero l’unico in Italia a conoscere la melodia di quel rock, che guardacaso si chiamava «L’orologio matto» e che solo quattro mesi dopo entrò in circolazione in Italia, De Filippi mi chiese: «Come fa il pezzo?». Glielo canticchiai in un orecchio. «Ah, ho capito, è un giro di blues», disse al pianista. Fu un successo. Dovetti ripeterla tre volte. E, da quella sera, ogni sera a grande richiesta la cantavo come minimo un paio di volte. L’unico problema era che io di giorno lavoravo e non potevo fare le tre del mattino tutte le sere. O smettere di lavorare o smettere di cantare. Naturalmente io optavo per la prima ipotesi ma come facevo? Non potevo permettermi di non lavorare.

Venni a sapere che il padrone del locale dava ogni sera ai quattro ballerini che si esibivano, per uno o due balli, mille lire, una birra e un panino. Così, dato il successo, chiesi se poteva fare anche a me lo stesso trattamento. E lui, non so perché, forse l’avevo abituato male, mi disse che poteva darmi solo la birra e un panino ma non le mille lire. Non c’è stato niente da fare. Persino i ballerini insorsero contro di lui, ma niente. Naturalmente dovetti accontentarmi del panino e la birra, anche se non bastava a fermare la magrezza che mi stava divorando.

Dormivo quattro ore per notte e il lavoro, purtroppo, arrivava alle consegne sempre più tardi. Nel frattempo, però, avevo guadagnato la preziosa amicizia di persone illuminate come Dario Fo, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e i grandi musicisti come Franco Cerri, Enrico Intra, Bruno De Filippi e tutti gli altri che più tardi, quando la fortuna si fece più incessante, a rotazione suonarono nei miei dischi. Poi un giorno arrivò Bruno Dossena e mi disse: «Sto organizzando il primo Festival del rock. Ci sono sette orchestre, ma non c’è un cantante rock. Se tu partecipassi sarebbe bellissimo». Fu così che nacque la mia prima band. Al piano c’era Jannacci, Pino Sacchetti al sax. Al basso, batteria e chitarra i fratelli Ratti. Alla seconda e terza chitarra Gaber e Ico Cerutti. Da lì tutto ebbe inizio, mentre lo sfacelo già da qualche tempo aveva cominciato a segnare in modo devastante il volto di Milano.

Adriano Celentano

07/04/2012 – Corriere della Sera

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