“Una serata passata a far musica con i miei musicisti è una serata ben spesa“. A 81 anni d’età, Paolo Conte non ha alcuna intenzione di smettere. Il musicista astigiano festeggia il mezzo secolo di “Azzurro” con il doppio album dal vivo “Live in Caracalla“, 20 canzoni registrate lo scorso giugno a Roma con una band di dieci elementi (e cinque ospiti), più l’inedita “Lavavetri” (il 30 novembre uscirà la versione in triplo vinile). L’ha presentato alla stampa riunita al Teatro degli Arcimboldi prima del suo secondo concerto milanese. “Ho perso l’abitudine di suonare il pianoforte tutti i giorni quando sono a casa“, dice, “ma è una repulsione momentanea“. Il tour di Conte continua con date a Parma (22 novembre sold out) e Bologna (10 e 11 dicembre). Nel 2019 sarà a Genova (23 febbraio), Lucerna (28 marzo), Torino (15 aprile), Bergamo (10 maggio), Colonia (3 agosto).
L’inedita “Lavavetri” non ha alcun significato politico. “Mai preteso di dare messaggi. È una cosa tenera, una dedica a un simpatico lavavetri che ho incontrato a Torino a un semaforo, un paio d’anni fa. Aveva un sorriso meraviglioso ed era molto educato“. A chi gli chiede per chi ha votato risponde che di politica non se ne intende. La musica la aveva scritta da tempo. In archivio ha altri brani abbozzati soprattutto negli anni ’70 e ’90. “Oggi non ho tanta voglio di scrivere, preferisco disegnare e dipingere. Del resto l’ispirazione non la puoi programmare, arriva e basta. Devi solo essere solo pronto ad accoglierla. Perciò per un album nuovo ci vorrà del tempo“.
“Azzurro” venne portata al successo da Adriano Celentano cinquant’anni fa. Com’è stato il ’68 di Conte? “Non l’ho vissuto. Vivevo in provincia, dove lo si sentiva molto meno rispetto alla città. La generazione dei cantautori era fatta da universitari con una gran voglia di scrivere cose impegnate. Io no. Io venivo dal mondo dei compositori per altri, aiutavo mio padre in ufficio, appartenevo a un’altra generazione. Ho goduto dell’ospitalità del mondo dei cantautori pur non avendo nulla a che spartire con loro in quanto a scrittura e istanze sociali. All’epoca andava di moda il temine alternativo e non c’era nessuno più alternativo di me nel modo di scrivere e cantare“.
Conte capì subito che “Azzurro”, con il testo di Vito Pallavicini, era un pezzo vincente. “L’ho scritta pensando proprio a Celentano. Il successo lo devo a lui, l’avessi cantata io non sarebbe andata da nessuna parte. Con Celentano poi ci saremo visti tre, massimo quattro volte nella vita“. La canzone è diventata un inno collettivo. “Se ne sono impadronisti i torpedonisti“, dice scherzando. E lui ha mai cantato “Azzurro” su un pullman? “Per carità, soffro di nausea“.
Conte non ha rimpianti, se non per lo scarso successo del progetto del 2000 “Razmataz”, che fu “penalizzato dal fatto che uscì in DVD in un’epoca in cui nessun l’aveva in casa“. Loda le qualità dei jazzisti, “che sul palco si muovono come attori, dicitori, cantastorie, poeti, con una teatralità che nelle altre musiche non trovo“. Non è nostalgico (“La nostalgia è un sentimento che si prova per qualcosa che hai vissuto, io mi ispiro a epoche che precedono la mia nascita“), non si considera un monumento, ma gli fa piacere essere considerato un maestro, si lamenta per la scomparsa dell’armonia nelle canzoni. Afferma che “dal punto di vista letterario gli artisti italiani hanno fornito più materiale interessante dei colleghi americani, senza nulla togliere al Nobel di Bob Dylan. Oggi si è perduto molto del linguaggio letterario dei cantautori. Ho l’impressione che quelli di un tempo fossero più colti di quelli di oggi“.
13/11/2018 – Rockol.it