INTERVISTA ALL’ARCHITETTO. «ALL’ESTERO CHIAMANO I PROGETTISTI ITALIANI, QUI NO»
«Ma su una cosa sono Expo-entusiasta: il tema della mostra, nutrire il pianeta. Una bella intuizione»
Exposcettico o Expoentusiasta?
«Sono Expo diffidente»
Come Celentano, che prevede speculazioni e colate di cemento su Milano?
«Io temo la retorica celebrativa e vedo il rischio della corsa all’oro, dell’affarismo ».
Nella zona dell’Expo ci sono aree che hanno avuto una rivalutazione del trecento per cento: l’affare qualcuno l’ha già fatto.
«Per questo difendo Celentano: lui è la voce della coscienza. Come Beppe Grillo. In certe occasioni è importante che Milano sappia ritrovare la sua anima critica. Se c’è discussione e dibattito anche i progetti migliorano. Però… ».
Però…
«In una cosa mi sento Expo entusiasta »
Quale?
«Il tema. È una bella intuizione: nutrire il pianeta. Una sfida che tocca la fragilità della terra, l’ambiente, la guerra alle povertà. È la questione giusta. Milano può farne una bandiera. Io spero che da qui al 2015 la retorica non si mangi la verità e l’ingordigia i soldi».
Cade la linea. La voce di Renzo Piano si perde da New York. È in strada, intorno ad Harlem. Sta progettando il nuovo campus della Columbia University: una città nella città con facoltà, laboratori di ricerca, teatri, negozi e una scuola d’arte. A San Francisco sta finendo il nuovo Museo di Scienza naturale. Diventerà l’edificio più verde d’America: il tetto è un gigantesco giardino di 300 mila piante, le graminacee abbassano la temperatura e i condizionatori diventano inutili. Rieccolo al telefonino: «La scommessa dell’Expo dovrebbe essere quella di far emergere le affinità globali positive, quelle che hanno fecondato per anni la nostra cultura umanistica. Dopo l’11 settembre i riflettori si sono accesi soltanto sulle affinità negative. Sostenibilità, bellezza ed equità sociale dovrebbero essere le tre parole chiave ».
Molti si chiedono se l’architetto Renzo Piano parteciperà ai concorsi per l’Expo.
«La mia risposta è no»
Senza ripensamenti?
«Nei concorsi si deve lasciar spazio ai giovani. Avevo 33 anni quando ho vinto il progetto del Beaubourg con Rogers, e a concorrere eravamo in 681. Senza quella decisione coraggiosa e aperta nessuno mi avrebbe preso in considerazione. Ci sono troppo pochi concorsi a Milano e in Italia? «Si è diffusa l’idea che è pericoloso far concorsi. Ma io dico: è pericoloso fare programmi sbagliati. I concorsi servono, fanno emergere nuovi talenti».
Per City Life, l’ex quartiere fieristico milanese, c’è chi rimpiange il suo progetto. Anche Berlusconi adesso parla dei grattacieli sbilenchi di Libeskind. E si dice: troppo cemento.
«Quello era un concorso per operatori, su inviti. In questi casi pesa molto l’aspetto economico. Vince chi offre di più».
E ha vinto una cordata con gli architetti americani.
«Non discuto i progetti dei colleghi. Dico che Milano, la città che inventò la Triennale, non può ridursi a ignorare la sua cultura. Io lavoro al più grande progetto urbano di New York perché in America c’è voglia di umanesimo. E noi, culla dell’umanesimo, andiamo a importare la visione degli shopping center?»
L’Expo di Milano senza Piano, allora?
«Io il progetto per Milano ce l’ho già, sono dentro l’Expo a Sesto San Giovanni, nella vecchia area industriale della Falck. Lì si sta cancellando la periferia industriale facendola rivivere come luogo urbano, con un museo d’arte contemporanea, la città della Scienza, l’equità sociale, i contratti per i giovani e il verde che viene restituito ai cittadini ».
Ci sono state difficoltà finanziarie su questo progetto, è sicuro che possa essere portato a termine?
«Io ci credo. È la Fabbrica delle idee alla quale sono più legato. Dal costruttore Zunino e dal sindaco Oldrini ho avuto fiducia, e a loro do la mia solidarietà. Ma se il progetto venisse snaturato da qualcun altro scapperei a gambe levate».
A Milano lei ha lavorato su un progetto per il recupero di un’altra periferia, Ponte Lambro. Non è finita bene.
«Mi sento un po’ colpevole per un progetto che non è andato avanti come doveva. Ho lavorato con persone illuminate. Ma alla fine di luce ne facevano poca».
Un suggerimento al sindaco Moratti?
«Io porto nel cuore Milano come una città bella, ma oggi Milano deve fermare la sua esplosione, chiudere la ferita delle periferie, costruire solo sul costruito, trasformare il traffico privato in pubblico, ampliare ogni metro quadrato di verde, ritrovare l’acqua, smettere di fare i grandi parcheggi in centro…»
L’Expo come occasione per un risanamento urbano?
«Una città bella è lo specchio di una comunità bella. E La parola “bella” non è disgiunta dalla parola “buona”, mi diceva Senghor, quando lavoravo per lui con l’Unesco».
La bellezza non è un concetto troppo astratto, applicato a una città?
«C’è una bellezza non formale, non edonista, che riguarda la qualità degli spazi e dei luoghi. È una bellezza ha a che fare con la dignità del vivere urbano, che chiude certe ferite sociali».
Ci vuole un simbolo?
«Trovo poco interessante la discussione sui simboli. Credo all’idea di una città che restituisce ai suoi abitanti il gusto di viverla. L’esperienza di Genova ’92 è utile: non si spreca niente. Il porto antico recuperato per le Colombiadi non è solo un simbolo: la gente ci va, lo usa».
L’Expo per Milano più vivibile?
«Ha mai notato con quale entusiasmo cresce il verde a Milano? Ci sono città dove gli alberi ti ringraziano ogni mattina. Milano è una di queste».
Giangiacomo Schiavi
06/04/2008 – Corriere della Sera