Dal sogno rock con il Molleggiato al posto comunale
«Non vedo Adriano dal 1980, ma non porto rancore»
FOGGIA — Chissà se invece di cantare la storia di quel ragazzo nato in via Gluck, Adriano Celentano avesse raccontato quella di un giovane cresciuto in vico Gargano. Dalla periferia di Milano al centro di Foggia c’è solo un numero civico di differenza, il 13 anziché il 14. Ma forse il pubblico, le trasmissioni televisive, i giornali, i critici «deficienti» della tv non starebbero a parlare di polemiche sanremesi, di attacchi a giornali definiti inutili, di cachet esagerati ma devoluti in beneficenza, di fischi e commissariamenti, di monologhi senza alcun contraddittorio.
PORTE GIREVOLI – Se in quel lontano 1927 i suoi genitori non avessero lasciato Foggia per trasferirsi prima a Torino e poi a Milano, Adriano Celentano, classe 1938, sarebbe mai diventato quello che oggi rappresenta nell’immaginario dell’Italia intera? Impossibile riscrivere la storia del «molleggiato» vedendola dall’altra parte delle sliding doors, ma è possibile immaginarla ripercorrendo quella del procugino Amedeo, nato a Foggia e appassionato di musica. Cugino di secondo grado del cantautore milanese, fu avviato alla carriera canora proprio grazie a quel ragazzo della via Gluck che lo ospitò nella sua casa di Milano per cinque anni e mezzo, dal ’67 al ’72, facendolo studiare con il maestro Mario Mellier e procurandogli anche diverse serate in alcuni dei locali lombardi allora più in voga, dallo Smeraldo al Club ’48. Fino a quando, di punto in bianco, Adriano gli disse: «Se aiuto te, io poi come faccio?» E gli propose di cambiare nome: Amedeo Celentano sarebbe diventato Amedeo Dell’Ora. Una proposta che al «secondo Celentano» non piacque per niente tanto da indurlo a rinunciare al sogno meneghino e ad abbandonare definitivamente Milano.
VERSO SUD – Ma non il mondo dello spettacolo. Ancora giovane e motivato, non fosse altro perché il procugino nel frattempo spopolava su schermi e jukebox, Amedeo decise di riprovarci, questa volta nella Capitale, dove si cimentò anche con il cabaret. «Sono stato cinque anni a Roma, ma lì l’ambiente era diverso da quello milanese: troppe ipocrisie, troppi compromessi, troppa gente in cerca di successo. E così decisi di mollare e tornarmene a Foggia». Amedeo non lo dice espressamente, ma dentro di sé è consapevole che in quella tappa romana aveva pesato, e non poco, l’assenza del cugino Adriano, figura ingombrante ma comunque onnipresente. E così diventò quasi un tentativo di ritrovarne l’estro e la creativa lungimiranza, la creazione a Foggia di una band che tra i suoi componenti, guarda caso, comprendeva un altro Celentano quale abile chitarrista. Non Adriano ma Guido (cugino dei primo grado del primo) che nell’albero genealogico è il figlio di Alfonso, fratello di Leontino, padre di Adriano. Erano in cinque, si esercitavano nei box e nella chiesa della Beata Maria Vergine, parrocchia di riferimento per i rioni periferici della città. Tra prove e concerti, il gruppo tirò tardi per cinque anni, poi nel ’90 il rompete le righe e ognuno per la sua strada. Amedeo ha continuato a cantare, ma solo in feste e matrimoni, con quel timbro che, a detta dei più, ricorda molto quello di Adriano. Negli ultimi anni un’amicizia con Liliana De Curtis, la figlia del grande Totò, lo ha portato in giro per l’Italia. Insieme a lei ha interpretato brani classici della musica napoletana.
IL POSTO FISSO – Dopo l’illusione milanese e la boria capitolina, Napoli come un approdo normale e un solido rifugio per il mancato Adriano che oggi lavora come geometra comunale al cimitero di Foggia. «Ho il computer carico di musica, tanto per distrarmi e non pensare a una città che sta morendo e dalla quale fuggirei anche di notte». Tra i suoi file, naturalmente, anche i più grandi e celebri brani di Adriano. Nei cui confronti il geometra Amedeo, che ha sessant’anni, non serba alcun tipo di rancore. Semmai il rammarico di non averlo più incontrato dopo l’ultimo concerto che nel 1980 il «molleggiato» tenne in un delirante Stadio Zaccheria. Da allora a Foggia Celentano, quello vero, non è più passato, neanche per ritirare la cittadinanza onoraria e la laurea honoris causa che la facoltà di Lettere avrebbe voluto riservargli «per la sua innovativa capacità di modificare il linguaggio della comunicazione». Troppo, per il «re degli ignoranti» che di Foggia, a detta dell’altro cugino, Guido, sembra serbare esclusivi ricordi di natura gastronomica — come lagane e fave (una sorta di tagliatelle) e pasta rucola e patate — e linguistica. Non di rado Adriano amava parlare in dialetto foggiano, tra l’altro recuperato nella sua canzone con Mina Che t’aggia di’. Per calmare la sue esuberanza lo zio — racconta il cugino Guido — gli diceva, sempre in dialetto: «Oh, Adrià, amma sfascià tutt’ cos?». Così si parlava in vico Gargano da zia Antonietta, dove la famiglia Celentano si riuniva. Così forse avrebbe continuato a parlare — tra un silenzio e l’altro — il ragazzo della via Gluck se solo la via Gluck fosse stata una traversa di piazza Giordano.
Marzia Campagna
28/02/2012 – Corriere della Sera